“La sfortuna di mezzochilo non è stata quella di incontrare Marco Di Pietro, ma quella di incontrare Desire, la figlia del boss”.
“Mezzochilo” è Carmelo Tumino, un ragazzo che a soli 19 anni perse la vita in condizioni misteriose e del quale ci siamo occupati qualche settimana fa con un articolo (LEGGI).
Non è vero che la gente, se posta davanti al tentativo di far giustizia per la morte di un povero ragazzo, non trova il coraggio di parlare, di raccontare elementi utili che possano ricostruire storie. Possono, invece, contribuire alla ricerca della verità, perché non Giustizia senza verità.
La Sicilia è sempre stata la Terra dove quasi mai “tutto è come appare”.
E, ritornando alla vicenda dell’articolo, la morte di Carmelo Tumino potrebbe rientrare perfettamente in questo contesto.
Dalla pubblicazione dell’articolo, diverse persone ci hanno contattato per raccontare particolari inediti che riteniamo possano aiutare a far luce sull’accaduto. Persone sconosciute fra loro ma che raccontano versioni molto, molto, simili e tutte con un unico filo conduttore: Carmelo Tumino, detto “mezzochilo” per la sua magrezza, non si è suicidato, è stato ucciso!
“Pochi giorni prima di morire mi aveva detto che si era fatto fidanzato con una ragazza di nome Desirè, ed era felicissimo. Solo dopo la sua morte ho saputo che appartenesse ad una famiglia mafiosa”.
La Desire in questione, secondo le testimonianze, apparteneva ad una famiglia mafiosa di Avola. Tutto combacerebbe, anche con un’altra testimonianza.
“Carmelo a Noto non si vedeva da parecchie settimane, neanche i suoi amici più stretti avevano notizie, essendo poi un ragazzino molto scorbutico e chiuso non ne aveva poi così tanti”.
E poi ancora:
“Carmelo era letteralmente scomparso da Noto nell’ultimo periodo. Carmelo si era innamorato di una ragazzina più piccola di lui appartenente ad una famiglia mafiosa di Avola, si era praticamente trasferito ad Avola per stare vicino a lei. La famiglia (di lei), però, non lo accettava per la figlia, tanto da farlo prelevare dai picciotti e rispedirlo nottetempo a Noto. Poi, poco prima dell’arrivo in città, qualcosa è andato purtroppo storto”.
Ecco, il punto: Carmelo non era accettato dalla “famiglia mafiosa di Desire”, venne fatto “prelevare dai picciotti e rispedito nottetempo a Noto” ma “qualcosa è andato storto”.
Le parole di questo testimone, combaciano perfettamente con quelle da noi pubblicate poche settimane fa.
In questo caso non si tratta di testimonianze ma di fatti concreti.
E’ Zafer Yildiz, soprannominato Raffaele u turcu (coinvolto e condannato nell’operazione Nemesi) a far combaciare i racconti.
Le parole di Raffaele u turcu si trovano nelle “carte” dell’inchiesta Nemesi della Polizia di Stato. Sono incontrovertibili.
Rileggiamole, alla luce delle precedenti testimonianze:
Zafer Yildiz, uscendo dal carcere di Cavadonna per fine pena, parla con il cognato, Michele Vaccarisi che lo va a prendere.

I due, facendo il punto della situazione criminale nella realtà di Avola, parlano di uno dei soggetti più pericolosi e di grande carisma (oggi in carcere), Marco Di Pietro, detto Marco Motta (PER INFO LEGGI ARTICOLO).
Tralasciando dettagli inutili della conversazione, Zafer Yildiz chiede al cognato se Marco Di Pietro abbia possibilità di esser presto scarcerato. Vaccarisi, ritenendo improbabile tale ipotesi, afferma: “lui (Marco Di Pietro) ha paura di quello, (del nuovo collaboratore di Giustizia). Si spaventa per quel fatto, “ro picciriddu ittatu rintra o ponte…”.
Marco Di Pietro (alias Marco Motta) in quel periodo era un giovane che si avvicinava al clan, disposto a tutto pur di mettersi in luce con il boss locale. Il boss che, per conto del clan Trigila, comandava, faceva estorsioni, gestiva la droga: opprimeva un intero territorio, insomma.
E Marco Motta (insieme a chi?) quella sera – secondo le parole di Yldiz – era con “u picciriddu ittatu rintra o ponte”. Perchè si spaventa? Perchè quel picciriddu è stato ittatu rintra u ponte?
Non è difficile legare il giovane Carmelo Tumino a quel “picciriddu ittatu rintra o ponte”.
Un giovane che merita Giustizia, quella con la “G” maiuscola. Perché non si può morire a 19 anni e chi ha provocato questi fatti, deve pagare: dagli esecutori ai mandanti. E quel nome, Desire, collegato ad “una famiglia mafiosa di Avola”, potrebbe lasciare ben poco spazio all’immaginazione…
Chi sa, parli! Rimanere in silenzio vuol dire far vincere chi ha cercato (e cerca) di comandare sulla vita di ognuno di noi oltre ad uccidere nuovamente Carmelo.