Il casolare di Montagna dei Cavalli, dove venne ritrovato Bernardo Provenzano dopo 43 anni di presunta latitanza, è ancora lì, incolpevole custode di segreti inconfessabili, a ricordare che la mafia è il peggiore inganno che l’uomo ha saputo perpetrare a se stesso. Pochi metri quadri fatiscenti usati come trono da cui tenere in scacco una nazione intera e tutte sue le peggiori pedine, simbolo di un potere trasversale distruttivo, che distrugge e logora anche chi ce l’ha. Altro che andreottiani aforismi.
Ma cos’è cambiato dunque, nella Corleone del dopo Riina e Provanezano? Molto, per alcuni aspetti, niente, per tutto il resto. Se, infatti da una parte ci sono i corleonesi che l’11 aprile del 2006 hanno finalmente esultato per la cattura della mente di Cosa Nostra, dall’altra ci sono quelli che la mafia in paese non l’hanno neanche mai vista; se da una parte ci sono i ragazzi del C.I.D.M.A. ( Centro Internazionale di Documentazione sulla Mafia e del Movimento Antimafia) che lavorano a rotta di collo per scucirsi di dosso quell’ignobile etichetta di mafia, dall’altra ci sono ancora tanti fedelissimi dei boss.
La mafia, insomma, da qui non se n’è mai andata e a dieci anni esatti dalla cattura del capo dei capi, torna la sua ombra più insistente e minacciosa che mai. Il lungo filone dell’inchiesta denominata “Grande passo” è la a dimostrazione che se ù curtu e zi’ Binnu hanno dettato le leggi di Cosa Nostra per decenni, i picciotti sono stati in grado di farle applicare anche in loro assenza.
Il balletto degli arresti per gli esponenti della criminalità organizzata, si chiude, per il momento, nel novembre scorso, quando gli uomini delle forze dell’ordine eseguono altre sei ordinanze di custodia cautelare. Nell’operazione “Grande passo 3” finisce anche Rosario Salvatore Lo Bue, ritenuto il capo del mandamento mafioso di Corleone ed unico erede di Bernardo Provenzano. Secondo gli inquirenti, la banda criminale stava progettando l’attentato ai danni del Ministro Angelino Alfano, che, inasprendo il 41 bis, avrebbe tradito il patto con gli uomini “d’onore”. In una intercettazione si sente: “Se c’è l’accordo gli cafuddiamo (diamo ndr) una botta in testa. Sono saliti grazie a noi. Angelino Alfano è un porco. Chi l’ha portato qua con i voti degli amici? E’ andato a finire là con Berlusconi e ora si sono dimenticati”.
Ma dalle intercettazioni emerge anche il rapporto eccellente che boss e affiliati avrebbero mantenuto con il primo cittadino, il quale li avrebbe favoriti in alcuni affari. Così, una commissione d’accesso pone immediatamente al vaglio atti e delibere del Comune corleonese per scongiurare il pericolo di infiltrazioni mafiose. Ci sono voluti tre mesi di tempo per decidere, il verdetto sarà pronunciato il prossimo 19 di aprile e se il consiglio comunale verrà sciolto per mafia, l’apparente stato di quasi normalità dietro cui ci si cela ormai da dieci anni, andrà nuovamente in frantumi e ogni sforzo sarà stato vano.
E sarebbe un vero peccato. Appena si entra in paese, dove si accede dopo 40 minuti di tornanti, si ha come l’impressione che Cosa Nostra avesse fatto pace con se stessa e con la quotidianità. In un bar al centro, si fa bella mostra di un quadro di Lucia Riina, figlia di Totò, mentre in un altro c’è il figlio di Provenzano, Angelo, pizzetto biondo e gilet, che serve caffè sorridente e disteso circondato da amici e clienti. Nei pressi dell’altra piazza, c’è il famigerato corriere dei pizzini, Bernardo Riina, cugino del capo mafia ma complice del rivale durante la latitanza, che, con la sua stampella e il peso sulle spalle di una condanna a otto anni per associazione mafiosa e favoreggiamento, chiacchiera tranquillo in strada.
A poca distanza una dall’altra, confuse tra le altre abitazioni e senza particolari protezioni, ci sono la casa dei Provenzano, grande ma per nulla appariscente, quella modesta di Carmelo Gariffo, nipote di Provenzano e anch’egli accusato e arrestato per mafia, e l’ex dimora corleonese della famiglia Riina, imponente struttura rosa da diverse centinaia di metri quadri, dove oggi sorge la sede della Guardia di Finanza.
La strada lungo cui è possibile arrivarci, è la stessa che porta al covo, dove oggi c’è un cancello aperto e nessun nastro a sequestrare l’area. 3 o 4 chilometri, non di più, separavano gli inquirenti dal ritrovamento del boss e la mente di Cosa Nostra, ma per mesi le tracce si sono perse, ripetutamente, all’incrocio di via 11 aprile 2006, tra il fatiscente casolare che ospitava la latitanza di Provenzano e l’abitazione di Bernardo Riina, dove venivano filtrati i sacchetti di “immondizia” a cui il figlio Angelo e gli amici di papà facevano fare il giro di tutta la vallata prima di essere consegnati.
E ora, per Corleone, c’è il rischio di prendere coscienza che dopo dieci anni, le uniche cose ad essere sparite dopo lo storico blitz, siano le ricotte e i caciocavallo ormai putrefatti che l’ex super boss, oggi detenuto in regime di carcere duro, forse picchiato brutalmente e reso incapace finanche di tenere in mano una cornetta del telefono, produceva con le sue stesse mani per ammazzare il tempo, in attesa di essere processato per aver ammazzato e fatto ammazzare centinaia di persone in nome di un dio potere che, evidentemente, tanto onnipotente non è.