A Montedoro, un paesino di millecinquecento anime, a due passi da Racalmuto, c’è il museo della zolfara ovvero il luogo dove si conserva la memoria di una delle pagine più significative della storia economica e sociale siciliana, ma non solo siciliana.
La miniera, aperta nell’ottocento e attiva fino alla prima metà del novecento, per molti decenni ha soddisfatto, da sola, oltre l’ottanta per cento della domanda di zolfo a livello mondiale, soprattutto in concomitanza con la rivoluzione industriale.
Si potrebbe pensare, quindi, che per gli abitanti del luogo la miniera abbia rappresentato uno strumento di emancipazione sociale. Forse, ma a quale prezzo? La domanda non è peregrina perché l’attività estrattiva dello zolfo si è basata, per moltissimo tempo, sullo sfruttamento umano, ed in particolare sullo sfruttamento del lavoro minorile.
Esisteva, infatti, la prassi di “assumere” i bambini delle famiglie più povere, mediante un contratto molto particolare che, nella sostanza, attribuiva al picconiere, cioè colui che aveva il cottimo dell’estrazione del minerale, la proprietà dei c.d. “carusi”, molto utili per la loro capacità di calarsi nella bocca della miniera e di uscirne con un carico di circa 80/90 chili di materiale sulle spalle. Questo contratto prevedeva il diritto del minore di avere cibo garantito ogni giorno e una somma, versata una tantum alla famiglia, il c.d. “soccorso morto”, cioè una sorta di risarcimento anticipato in caso di decesso per incidente o per ogni altra causa. A partire dalla data di conclusione di questo “contratto” la famiglia non poteva più diporre del bambino, ma poteva riscattarlo, restituendo al picconiere la somma ricevuta a titolo di “soccorso morto”, che nel frattempo era già stata spesa, comprensiva di interessi.
I ragazzi delle miniere conoscevano il dolore del duro lavoro. Si diceva che entravano cantando e uscivano piangendo, tanta la fatica di quei carichi, oltre la loro stessa misura.
Dentro le gole “infernali” della zolfara le condizioni di lavoro erano terrificanti perché l’aria era impastata con le polveri di zolfo. L’umidità e il sudore, a contatto con il minerale, lo trasformavano in acido solforico, che produceva ustioni urticanti in tutto il corpo (i minatori erano costretti a lavorare nudi e senza scarpe, perché il tessuto avrebbe assorbito questo acido, producendo conseguenze ancora più gravi).
Una volta estratto, lo zolfo veniva separato dalla roccia e raccolto in appositi “pani” (chiamati “panuotti”), mediante un processo di fusione, gestito “ad occhio”, senza alcuna preparazione scientifica. E siccome i minatori (c.d. picconieri) venivano pagati a cottimo, cioè in base al quantitativo di minerale puro estratto, è chiaro che un errore nel processo di fusione poteva mandare a monte il lavoro di tutta una giornata.
Insomma, il museo della zolfara di Montedoro è un luogo prezioso perché custodisce il ricordo di un’esperienza industriale che ha lasciato ferite profonde e che nessuno si augura possa riproporsi in nessuna parte del mondo.
Purtroppo, condizioni di lavoro analoghe a quelle che vivevano i “carusi” di Montedoro sono oggi una realtà in tante parti del mondo, come ad esempio in Congo, dove i bambini vengono sfruttati nelle miniere di cobalto, un minerale necessario per la realizzazione dei nostri smartphone.
La storia dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo si ripropone, allora, oggi come nell’ottocento, e molto spesso noi consumatori occidentali ne siamo complici inconsapevoli.
E’ necessario pensare a queste cose e lo si può fare solo guardando al nostro passato, anche quello che troviamo dentro casa, perché grazie a realtà come il museo della zolfara possiamo comprendere la tragedia umana e sociale che si cela dietro il mito dello sviluppo industriale, del progresso economico e del consumo di massa. Grazie luoghi come il museo della zolfara possiamo comprendere meglio anche il nostro presente e diventare cittadini e consumatori più consapevoli.
I confini nazionali non sono barriere esimenti di responsabilità. Lo zolfo di Montedoro serviva in Francia, in Inghilterra, in Germania e in tanti altri “paesi civili” del tempo. Eppure lo sviluppo industriale di quelle “grandi nazioni” si basava sullo sfruttamento dei bambini siciliani.
Oggi le cose non vanno diversamente e forse la cosiddetta globalizzazione non sembra nemmeno un’invenzione del tutto nuova.
Ognuno di noi, quindi, con le proprie scelte quotidiane, anche le più banali, rischia di concorrere nell’orrore dell’infanzia negata, del futuro senza speranza e nell’ignominia di vecchie e nuove forme di schiavitù.
Ognuno di noi, col le proprie scelte quotidiane, può fare la differenza tra il pianto e il sorriso di un bambino, il pianto o il sorriso di un qualche “caruso” che lavora anziché giocare, da qualche parte sperduta eppure così vicina, in questa grande eppure piccolissima casa, chiamata mondo.