“Dell’uccisione di mio padre non ne parla più nessuno mentre chi lo ha ucciso va sui giornali”.
Ho appena letto queste parole di Sergio Amato, figlio del Giudice Mario Amato, ucciso a Roma il 23 giugno di quarant’anni fa. Fa male leggerle, è un pugno nello stomaco. Forse, però, è un pugno necessario. Necessario come giornalista e come persona. “Sono morti di cui non si parla mai. Mentre gli assassini di mio padre – afferma Sergio Amato -, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, godono di una rilevanza mediatica enorme”.
Lui, appena bambino. “Io avevo 6 anni, mia sorella 12”. Racconta del padre “era l’unico magistrato che indagava sull’eversione di destra. I Nar lo uccisero alla fermata dell’autobus”.
Il Giudice Amato che, invano, aveva chiesto la protezione, mai data.
Guardo gli occhi di questo ragazzo, più o meno mio coetaneo. Occhi privati di poter crescere con il padre. Fa male, tanto male. Ancor di più leggere la frase-appello “Coltivare la memoria è necessario” con la quale invita tutti noi a non dimenticare, a ricordare, a coltivare la memoria.
Perché ha ragione Lui, troppo spesso parliamo degli assassini, troppo poco delle vittime.