Quando seppe che mio padre, appena ventenne, si era iscritto al Partito Comunista, mia nonna ebbe una sorta di coccolone, si fece venire una crisi isterica e dichiarò che, da quel momento, non gli avrebbe più lavato i vestiti né gli avrebbe preparato il pranzo.
Dopo diversi giorni, vedendo che “a malattia” non era passata, la nonna si rivolse al parroco di San Teodoro, chiedendogli di intervenire, anche con l’esorcismo, ma il prete, conoscendo mio padre, le disse di smetterla con quella storia, spiegandole che “Minuzzu” era giovane e voleva cambiare il mondo, voleva la Giustizia Sociale, voleva aiutare i più deboli, proprio “come nostro Signore Gesù” e per questo non faceva peccato! Poi, la rassicurò, spiegandole che questa “sbandata bolscevica” sarebbe passata e “il figliol prodigo” sarebbe tornato alla “casa del Padre”.
Da quel momento il PCI entrava nella nostra famiglia e non ne usciva più! Anche la sezione, intitolata ad Antonio Gramsci, si trovava davanti casa mia. Io e mio fratello Saro, più grande di appena due anni, passavamo interi pomeriggi chiusi in quello stanzone pieno di eco e fumo, lì dove oggi c’è una farmacia, e stavamo in compagnia di anziani, ex braccianti agricoli che ci raccontavano le storie dello “scogghiri”: la fatica, il dolore della schiena, il sudore che entrava fin dentro le ossa e non mollava fino al calare della sera, ma anche la bellezza “re’ cunta” raccontati al riparo di un qualche grande albero, in un qualche sperduto campo della Sicilia, insieme agli altri compagni di sventura, sotto il bacio di una luna che sembrava una mamma dagli occhi d’argento e che, talvolta, stregava il cuore dei più giovani, facendoli innamorare.
Comunque, essere figlio di un comunista non era facile, perché dovevi essere altruista, intransigente, non dovevi desiderare le patatine fritte, gli hot dog, la coca cola né ogni altro prodotto del capitalismo, dovevi ascoltare De Andrè, De Gregori, i dischi parlanti di Dario Fo e, soprattutto, dovevi praticare l’onestà, a tutti i livelli e in qualsiasi condizione, perché il Segretario del Partito, Enrico, aveva dato questo indirizzo: i comunisti dovevano sollevare la c.d. “questione morale” nel paese e liberarlo, puntando ad un’idea di Istituzione libera dai vincoli del partitismo e finalmente al servizio dei cittadini!
Noi bambini, che non ci capivamo nulla di quelle parole, venivamo travolti ugualmente da questa passione politica, prendevamo i manifesti in sezione, per appenderli nella nostra stanzetta, giocavamo a fare i comizi e imitavamo le riunioni interminabili, quelle a causa delle quali, ogni domenica, puntualmente, il nostro pranzo familiare veniva rimandato a non prima delle tre del pomeriggio.
Poi, un giorno di giugno, mio padre tornò insolitamente presto da lavoro ed aveva gli occhi lucidi, era distratto e parlava con concitazione, spiegando a mia madre che era successo qualcosa di grave. Il telefono iniziò a squillare, mio padre sussurrava qualcosa alla cornetta e poi faceva qualche un cenno, con la testa. Dopo qualche minuto, Giorgio Giurdanella si presentò, anch’egli stravolto in viso. Senza parlare mio padre salutò con un cenno mia madre e i due uomini uscirono di casa. Quella notte mio padre non rincasò. Seppi da mia madre che era partito, insieme a Giorgio, per raggiungere il compagno Segretario, a Roma, dove quest’ultimo era stato portato, a Botteghe Oscure, per essere esposto, fino al giorno dei funerali, e dove qualche milione di uomini e donne si era riunito, spontaneamente, per dare l’ultimo saluto a colui che aveva fatto della correttezza, dello stile, dell’onestà una causa di vita, un uomo tanto amato dai suoi compagni e tanto rispettato dai suoi avversari!
Al suo ritorno mio padre ci disse di avere visto i grandi della terra, riuniti intorno a Enrico, ed anche i più agguerriti avversari piangere sulla sua bara, e si commuoveva a ripensarci, come ripensando al nostro amato Presidente, appoggiato con le mani sul feretro e la testa bassa, le lacrime dietro gli occhiali scuri e inespugnabili.
Né mio padre né i suoi compagni furono più gli stessi, perché non erano più i ragazzi di Berlinguer, perché erano diventati improvvisamente grandi e avrebbero dovuto percorrere da soli quel percorso difficilissimo.
Abbracciandolo forte, io e Saro, gli dicemmo che anche noi saremmo stati veri compagni di lotta, nel nome di Enrico! Mio padre sorridendo ci disse che, allora, avremmo lottato insieme, ma negli occhi aveva un rimpianto lucido, una curva triste, come se pensasse che era tutto finito.
Ma la lotta non era finita!
La lotta non è ancora finita ed anzi bisogna ancora affrontarla, oggi più che mai!