Gli affari sono affari !
Questa nota trae spunto da una recente vicenda che ha origine in un luogo apparentemente lontano. Per raggiungerlo dovremmo viaggiare in automobile ininterrottamente per 47 ore e percorrere 4.613 Km.
Un luogo lontano che, però, dista appena 200 km. dalle stesse calde acque che bagnano le nostre spiagge. E’ Palmyra, antica citta siriana riconosciuta dall’Unesco quale patrimonio dell’umanità, dominata per quasi un anno dallo Stato Islamico.
Come è noto Palmyra recentemente è stata liberata dall’esercito di Assad con l’appoggio dell’aviazione russa. Dopo la liberazione di Palmyra sono rimasti sul terreno circa 180.000 ordigni bellici (mine, bombe e dispositivi esplosivi di vario genere) disseminati dalle milizie dell’ Isis prima della sconfitta. L’opera di bonifica della città e delle aree circostanti la sta effettuando una organizzazione russa (International Mine Clearing Center) dedita allo sminamento umanitario.
Ebbene poche settimane addietro questa organizzazione in una nota ufficiale ha dichiarato: “ gli ordigni esplosivi più moderni utilizzati dallo Stato Islamico a Palmyra provengono da quattro nazioni: Italia, Usa, Russia e Cina” – Tra le “eccellenze” del made in Italy figurano anche le APM (anti personal mine) note in tutto il mondo per il basso costo e facilmente disseminabili. E siccome gli affari sono affari le industrie belliche hanno goduto delle politiche permissive dei governi che chiudevano tutti e due gli occhi anche quando l’esportazione era rivolta a paesi soggetti all’embargo. Per molti anni tre sono state le aziende che hanno primeggiato nel settore delle mine. La “Valsella” (50% Fiat e 50% Borletti) e “Misar” nel bresciano e la “Tecnovar” a Bari. Aziende operanti alla luce del sole sostenute dal sistema bancario e dai finanziamenti pubblici per la ricerca tecnologica.
Le organizzazioni che si oppongono a questo genere di commercio dichiarano che ad esempio la “Valsella” è nota per aver prodotto ben 10 tipi di mine antiuomo arrivate in Sud Africa, Gabon, Iraq, Angola, Singapore, Somalia, Zaire, ecc.- In alcuni casi per aggirare il divieto di esportazione si è ricorso alle destinazioni fittizie. Emblematico il caso di 90.000 mine antiuomo imbarcate nel porto di Talamone (Grosseto) con destinazione Paraguay, via Argentina, e realmente arrivate in Sud Africa (al tempo inserita nella black list). Oppure la vendita, tra il ’90 e il ’92, di ben 200.000 mine all’Egitto e poi ricollocate chissà dove. Il 17 settembre 1996 un membro della Commissione d’inchiesta dell’ Onu sul Ruanda ha dichiarato di avere rinvenuto mine antiuomo della “Tecnovar” in un deposito dei gruppi armati Hutu.
Insomma, come dimostrato dai ritrovamenti delle settimane scorse a Palmyra, nonostante da alcuni anni in Italia sia vietata la produzione di mine antiuomo, prima di sospendere la produzione alcune aziende hanno trasferito all’estero sia il know-how che ingenti quantitativi di mine. In una lettera-testimonianza, che riportiamo in un altro articolo, una ex operaia della “Valsella” denuncia che quell’azienda ha prodotto oltre 30 milioni di mine ! Con la legge 185/90 è stata vietata l’esportazione di armamenti non solo verso le aree di guerra ma anche verso i Paesi in cui sono violati i diritti umani.
E invece a partire dal 2009 la positiva tendenza alla diminuzione dell’export delle armi si è vergognosamente invertita. Le autorizzazioni alla vendita di armi sono aumentate. I dati riferiti all’esportazione di armamenti nel 2015 indicano un valore di oltre 1,25 miliardi di euro. E’ lecito ritenere che, mentre il governo non esclude un intervento militare in Libia, i nostri soldati si potrebbero trovare sotto il tiro di armi fabbricate in Italia. Ma c’è dell’altro. In Sardegna, a Domusnovas in provincia di Carbonia, opera dal 2010 una azienda, la “Rwm Italia munitions” (controllata dalla tedesca “Rheinmetall Defence”) .
Ebbene, la Rwm dal 2013 è autorizzata alla esportazione di bombe denominate “ BLU-109” che contengono uranio impoverito. La stessa sostanza radioattiva utilizzata per gli ordigni Nato in Kosovo. Come è noto nei giorni scorsi il Ministero della Difesa ha subito una condanna per la morte di un nostro militare (Salvatore Vacca di 23 anni) esposto alle radiazioni dell’uranio impoverito. Secondo l’Osservatorio Militare, che si batte contro l’uso dell’uranio impoverito, quelle radiazioni hanno provocato la morte per leucemia linfoblastica di 333 militari, mentre altri 3.600 sono quelli ammalati.
Ma questa dell’uranio impoverito è un’altra storia del capitolo “ gli affari sono affari”.
di Gianfranco Motta
Lettera di una ex operaia della “Valsella” in occasione della veglia della pace di Tradate.
Care amiche, Cari amici, Ho lavorato nella fabbrica di mine ……Nel 1983, l’azienda ci comunica che il mercato dei prodotti civili non tira più ….. che saremmo diventati un’azienda militare..,.
Siamo così diventati la famigerata “Valsella Meccanotecnica”. Da allora, abbiamo iniziato a produrre le mine antipersona e gli stipendi aumentavano senza bisogno di fare scioperi o proteste. Siamo andati avanti per 10 anni con commesse grandiose. ……Da parte sindacale, ad ogni incontro con la proprietà, chiedevamo: “Per chi sono tutte queste mine?”.
La risposta era: “Segreto militare”.
Si calcola che la Valsella, nella sua breve storia, abbia fatto oltre 30 milioni di mine! Chiedevamo: “Ma perché servono migliaia e migliaia di mine?”. Risposta: “Per difendere il territorio dal nemico”. … Un grande giorno è stato quello in cui sono stata chiamata dal dottor Gino Strada.
Mi presentò una cassetta piena di mine dicendomi: ” Le conosci?”. Sì, le conosco”, risposi. ” Ma tu sai cosa fanno?”. ” Servono a difendere il territorio dal nemico”, risposi. “Cara Franca, queste mine stanno provocando tantissime vittime civili, che con la guerra non c’entrano, non c’entrano con la difesa del territorio. La famosa Valmara 69 è quella più bastarda: ce ne sono a migliaia nel Golfo e in tutto il mondo…”.
Tornando a casa, ho cominciato a pensare che dovevo fare qualcosa. II primo pensiero è stato quello di licenziarmi. se io andavo via, la Valsella avrebbe continuato a produrre le mine. Da quel giorno, la mia vita è cambiata. Ho cominciato a parlarne con tutte le maestranze, a spiegare cosa facevano quei pezzi di plastica che noi avevamo prodotto.
La risposta di tutti era: “Se non le facciamo noi, le fanno gli altri”. Ricordo quando padre Marcello (Storgato), un missionario saveriano di Brescia, mi ha portato a Ginevra, dove ho incontrato Kher Man So, un bambino della Cambogia, con una gamba mozzata da una mina, mentre andava a scuola in bicicletta.
Ho negli occhi ancora l’immagine di quel bambino che mi ha chiesto di “non costruire più mine”. Perciò io, con altre poche operaie, abbiamo continuato a parlarne anche fuori dei cancelli della fabbrica e in giro per l’Italia. ….
Al primo incontro internazionale contro le mine, tenutosi a Brescia nel 1994, abbiamo partecipato anche 5 operaie della Valsella. Ci siamo presentate con uno striscione e la domanda più lecita del mondo: “Perché per vivere dobbiamo costruire mine che uccidono?”. Sempre più gente capiva e ci seguiva. E il coraggio di richiedere la riconversione della Valsella aumentava sempre più.
La vita in fabbrica era molto dura per noi, e soprattutto per me, perché ero controllata a vista. Ho avuto da soffrire, da sopportare. Dal 1994, la Valsella non ha più prodotto mine; non per volontà dell’azienda, ma per la forza nostra e di chi ci ha aiutato; per la tenacia di chi ha lottato fino a far approvare la legge 374 del 1997. Così pure la SEI ha smesso di riempire le mine di esplosivo, anche se continua a riempire di esplosivo vari tipi di bombe, nella sua sede rinnovata e potenziata di Domusnovas, in Sardegna. Io voglio dire a tutti voi, che le mine hanno già fatto troppi danni e troppi morti, e che purtroppo continueranno a farne ancora, finché non saranno disinnescate e distrutte tutte le mine che sono state disseminate e piazzate in tante parti del mondo.
Io voglio dire a tutti voi, che anche le bombe della SEI SpA e le armi di ogni altra fabbrica, hanno già fatto troppi danni e troppi morti. È molto meglio non farne più.
Care amiche, Cari amici, stiamo attenti perché le aziende, quando si tratta di produzione militare e bellica, ci raccontano tante balle. Io l’ho provato di persona. La battaglia della Valsella ci è costata 18 mesi di CIG e senza stipendio.
Ma ne è valsa la pena. Nel 1998, la Valsella è stata messa in liquidazione ed è stata prelevata da un’altra Società; è stato fatto un accordo sindacale per distruggere tutto quello che riguardava la produzione delle mine antipersona e per produrre solo prodotti civili. A me è stato dato l’incarico di tagliuzzare e distruggere tutta la documentazione aziendale che riguardava la sperimentazione, la produzione e il commercio delle mine. Gli stampi sono stati danneggiati e venduti a “ferro vecchio”. Noi siamo fieri di questo risultato.
E ringrazio il nostro Presidente Carlo A. Ciampi per avermi voluto onorare con il riconoscimento di “Cavaliere della Repubblica”.
Come donna e come madre e come sindacalista, sono fiera della battaglia che ho fatto; e la farei di nuovo. E prego anche voi di provare a fare lo stesso. Vi abbraccio e vi prego, ancora una volta, di credere nella via della riconversione. Fare prodotti che favoriscono lo sviluppo e il benessere di tutti i popoli, anche di quelli più poveri nel mondo, questo è l’unico investimento che rende, perché genera ricchezza, sicurezza e felicità condivisa. Mine, bombe e armi che producono distruzione, non sono un investimento, ma una pazzia che non dobbiamo più permettere.
29 gennaio 2006 Franca Faita