“Vogliamo solo vivere, anzi, vogliamo solo far vivere queste due creature: i nostri figli”.
Siamo nel cuore del barocco ibleo, nei meravigliosi luoghi cantati da Gesualdo Bufalino, patrimonio dell’Unesco. Ma la storia della famiglia di Michele, 33enne modicano, sposato con Cristina (26enne) e con due figli (di sei e due anni), fa rabbrividire.
È un viaggio all’inferno di sola andata, quello che compiamo andando a parlare con loro. Non c’è bisogno di cercarla la sofferenza o il degrado, per abbracciarla tangibilmente.
Una “grande mondezza”, parafrasando il titolo del film che ha fatto grande l’Italia agli Oscar.
Non è possibile, non è umanamente possibile vedere ancora oggi situazioni di questo genere.
Sono i sorrisi di questi due bambini, queste due vite appena sbocciate, a dipingere un quadro drammaticamente inaccettabile.
Una casa che tale è soltanto per il nome, infissi che mancavano fino a pochi giorni fa (adesso sistemati soltanto grazie all’aiuto dei Forconi di Modica). Il freddo entra da ogni dove e se piove il fradicio pavimento si allaga come una conca di acqua sporca. Di calore in inverno neanche a parlarne, solo una stufa a gas (pericolosamente funzionante) a riscaldare i tre ambienti.
Le pareti sono verdi e non perché il colore della speranza sia stato scelto per dare vivacità, bensì giacché la muffa si è impadronita di ogni centimetro.
La prese della corrente elettrica sono a vista, con fili che diventano spesso gioco per le curiose mani, ignare del pericolo, dei due bimbi.
Il bagno è da mancare l’aria e non soltanto perché manchi qualsiasi possibile finestra o apertura sull’esterno, bensì per le condizioni igieniche e sanitarie prossime allo zero.
Tutto ciò, si badi bene, non per mancanza di igiene della donna di casa che, con i pochi mezzi posseduti e cercando qualsiasi espediente, cerca di lavare e strofinare, ma certamente per ambienti che tutto sono tranne che abitabili e che meriterebbero un’attenzione particolare (per usare un eufemismo).
“Mio marito fa dei piccoli lavoretti – racconta Cristina. Da gennaio per il Comune fa parte di un progetto di lavoro di 50 ore che, terminato a metà febbraio, avrebbe dovuto ricevere un pagamento di 250 euro. Soltanto che non ci hanno dato niente, ci hanno detto che non ci sono soldi”.
Le 5 euro nette che Michele guadagna ogni ora, meriterebbero una retribuzione quantomeno certa ma, purtroppo, questa sensibilità manca totalmente a chi dovrebbe provvedere.
La famiglia non ha nessun mezzo di locomozione, solo un’auto buttata all’ingresso come fatiscente messaggio di benvenuto.
“Nella macchina manca l’assicurazione. E chi ha i soldi per pagare sta tassa? Noi no, anche perché per attivarla, dovremmo pagare gli arretrati. Così mio marito – commenta con un filo di voce Cristina – ogni mattina parte dalla sorda e scende al Comune a piedi, per poi ritornare nello stesso modo, con qualsiasi condizione di clima: pioggia, vento, caldo o grandine”.
Solo un lavoro, solo una possibilità di vita, ecco cosa chiedono Michele e Cristina. Ecco cosa sognano gli occhi dei due piccoli bimbi.
“Vogliamo fare una vita quasi normale. Si, quasi perché lo sappiamo che normale per noi è impossibile. Cerchiamo un lavoro per mio marito, lui farebbe di tutto e fa di tutto. Pensate, a volte se non deve andare al Comune accetta di aiutare questo o quell’altro che, per 14 ore di lavoro, lo pagano fra le 10 e le 15 euro”.
Cioè meno di un euro l’ora. Michele, ci racconta la moglie, esce alle sei e mezza del mattino e rientra alle nove di sera. Tutto per 10 – 15 euro.
Ci viene da chiederci quale sottospecie di essere umano sia disposto ad esser così lercio interiormente da condannare la disperazione di questo uomo, cercando di ridurlo in schiavitù.
“Mio marito lavorava fino al 2009 per una importante impresa edile, poi è stato licenziato e da allora non lavora più. Quell’anno, quel dannatissimo anno – sottolinea Cristina – abbiamo perso tutto. Abitavamo in una casa popolare ma siamo stati sfrattati perché troppo onesti”.
Si, perché l’onestà che è la virtù delle persone più umili, con certa gente non paga.
“Eravamo entrati in quella casa popolare, dando mille euro ad un signore che ci aveva subaffittato la casa. Ma noi per essere troppo onesti, abbiamo pagato le bollette ed il condominio a nome nostro. Così siamo stati scoperti e buttati fuori. Si, buttati fuori, appena due mesi dopo la morte del mio secondo figlio che, di 45 giorni, venuto a mancare per un rigugito. Niente ha intenerito i responsabili delle case popolari, niente”.
Ed adesso si vive di espedienti, della bontà delle associazioni come la Caritas, le parrocchie o altri volontari che donano viveri e pochi spiccioli.
“Viviamo al mese senza una lira, credetemi. Campiamo così, perché per i nostri figli facciamo di tutto. Fosse per me – commenta amaramente Cristina – morirei”.
Le ultime parole di Cristina lacerano il cuore e si mangiano l’ultima parte di coscienza rimasta intaccata, gridando vendetta.
“Aiutateci, vi prego aiutateci. Ne subiamo di tutti i colori e non sappiamo come sopravvivere per i bambini. Ecco come viviamo, ma la tragedia è far vivere così i bambini. Può essere che non ci sia nessuno disposto a far lavorare mio marito e a considerarci delle persone e non degli animali?”.
Vorremmo che chi legga possa vedere e toccare con mano ciò che noi non siamo riusciti a spiegare: non tanto (o non solo) le condizioni della casa, dell’esterno o della vita degradata, bensì l’umiltà e la ricerca disperata ma mai pietosa, di Michele e Cristina.
Tutto ciò perché Michele con Cristina e, ovviamente, i due piccoli angioletti che vivono con loro, possano lasciarsi alle spalle la miseria ed abbracciare la speranza.
Chiunque voglia aiutare questa famiglia, può contattare Piero Bellaera (333 6791458).