Intervista a Papa Francesco

Sono, e saranno, di lungo termine, le conseguenze dell’impostazione pastorale che papa Francesco – come ha spiegato in termini inediti e avvincenti nella sua intervista del 19 settembre alla rivista dei gesuiti “La Civiltà cattolica” – intende dare alla Chiesa romana; e non saranno indolori. Per comprenderlo, prendiamo solo uno spicchio delle affermazioni del pontefice, là dove dice che non è il caso che i pastori (vescovi e parroci) continuino ad insistere su problemi come quello della contraccezione. Vediamo di approfondire questo riferimento che, oggi, ai più, risulterà assai oscuro.

Negli anni Sessanta grande era il dibattito, nell’opinione pubblica e nel mondo cristiano, sulla “pillola”, cioè su quel farmaco, appena scoperto, che permetteva alle donne, in un modo sicuro ed a tutte accessibile, di non rimanere incinte. A parte il lato scientifico e sociale del problema ve ne era, ovviamente, uno etico sul quale anche le Chiese volevano dire la loro. Per limitarci alle Confessioni legate alla Riforma, queste affermarono che stava alla coscienza dei coniugi decidere; in casa cattolica, poi, del problema si discusse, in termini molto generali, seppure aperti ad una prospettiva “liberal”, al Concilio Vaticano II (1962-65); ma, quando si trattò di discutere in concreto della moralità dei metodi contraccettivi, Paolo VI autoritativamente avocò a sé la questione. Egli creò una commissione consultiva – di prelati, ma anche di teologi, di coniugi e di medici – che, infine, a grandissima maggioranza propose di lasciare libertà di coscienza ai fedeli. Invece papa Montini respinse quel parere, e con l’enciclica “Humanae vitae” nel 1968 proclamò la “immoralità” della contraccezione. Una decisione che turbò numerose Conferenze episcopali, e provocò aperto dissenso in gran parte del mondo teologico e in molti fedeli.

Malgrado la tenace difesa di quell’enciclica, fatta da Paolo VI e ancor più da Giovanni Paolo II, in modo più o meno esplicito è continuata l’ondata di rifiuto di quel testo, data la sua impossibilità di fondare sul Vangelo e su una antropologia convincente le sue normative; e il dubbio non fu solo a livello di gente comune e di teologi o teologhe, ma perfino molto più in alto. Così il cardinale Carlo Maria Martini, già arcivescovo di Milano, nel suo libro-intervista “Conversazioni notturne a Gerusalemme”, nel 2011, un anno prima della sua morte, affermava: «Dall’’Humanae vitae’ è derivato un grave danno» giacché, a causa del divieto della contraccezione, «molte persone si sono allontanate dalla Chiesa e la Chiesa dalle persone». E, sottolineato che quella di Paolo VI era stata una decisione del tutto «personale», il porporato rilevava: «In passato la Chiesa si è forse pronunciata anche troppo intorno al sesto comandamento. Talvolta sarebbe stato meglio tacere».

Su questo sfondo – che riguarda diversi altri temi – si pone l’afflato con il quale papa Francesco afferma di voler affrontare, con un nuovo approccio, alcuni acuti problemi ecclesiali e pastorali. Ma, ovviamente, la soluzione non sarà semplice: perché affermare che una certa normativa tenacemente proposta alle coscienze dal magistero papale non era, e non è, in realtà, fondabile sulla Parola del Signore, apre uno squarcio profondo nella credibilità di Pietro.

Di fronte a questa emergenza teologica, cresce nella Chiesa cattolica romana l’appello al vescovo di Roma perché convochi un nuovo Concilio generale, un “Vaticano III” (o, se si celebrerà altrove, potrà essere un Messicano I, un Kenyota I, un Filippino I…). Sarebbe, quello, il luogo giusto per fare quel balzo in avanti che papa Francesco sembra voler dischiudere, e illuminare il giorno felice del quale ora si intravvede, forse, l’aurora.

 

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