Fermo immagine, grana larga ma non troppo, un tappeto di volti, espressioni e storie bloccate lì, nel luogo dove il tempo non esiste e resta solo la memoria a far da guardia contro il nulla.
Guarda! Ci sono tutti!
E chi potrebbe mai mancare a questo appuntamento?
C’è il potere politico, con la fascia tricolore, e poco distante il potere economico, quello che odora di ottani e quell’altro che ha fatto la sua definitiva fortuna vendendo casa ai morti.
Le due facce della stessa medaglia si salutano con affetto e convenienza, assottigliando gli occhi in un’espressione “serpentina”, un inchino appena accennato e l’intesa sull’esito delle prossime elezioni.
Ci sono gli altri candidati, tesi nel volto perché pensano di essere al centro della scena (magra consolazione: un mese di notorietà e poi di nuovo il triste anonimato di sempre) e stringono le mani a tutti, sorridono, elargiscono pacche sulle spalle ai potenziali elettori, i quali però rispondono al saluto con imbarazzo: poco più lontano, ci sono occhi polizieschi, pronti a registrare nome e cognome dei potenziali “traditori” di cui ricordarsi, subito dopo la proclamazione!
La banda comunale si compone nelle guance gonfie e gli occhi appena aperti, i muscoli delle mani tese tra le note balzellanti, mentre un bambino sulle spalle del padre allunga la manina, come quasi a volere toccare il simulacro del Risorto.
Ci sono baffi, barbe, ombretti e rossetti sgargianti, vestiti a fiori, a quadri, scarpe con il tacco e giacche striminzite (che ti fanno sembrare un salame), ci sono pantaloni corti sulla caviglia e calzini bianchi (per separare il blu dell’orlo dal nero delle scarpe), un gelato che sta per cadere e il profumo di caffè dal bar, un cane con la bocca aperta (forse sta abbaiando o forse sbadiglia) e in cielo il fumo bianco dei botti, le colombe con il nastro alle zampette che disegna una curva colorata nell’immensità di un azzurro ancora mezzo assonnato.
Dai corpi, stretti come in un amplesso, si levano migliaia di braccia, i cui smartphone, prolungamento fisico ed esistenziale del loro stesso essere, vengono ad ad immortalare, ancora una volta, il momento culminante della “vasata”, mentre la superstizione, che è sorellastra della fede, fa battere i loro cuori, nel timore che il velo nero non si “apra bene”, segnando così un anno di sfortuna!
Le due statue sono vicine, appaiate, sembrano prendersi per mano, si guardano felici e scrutano intorno, ai loro piedi e poi poco distante, lì dove la loro attenzione diventa espressione di rammarico e pietà.
Decidono di scendere e sono le uniche due figure mobili nel bel mezzo di questa fissità fotografica.
Superano gli uomini vestiti di scuro e li guardano con disprezzo, si fanno largo lentamente, passano accanto ad un neonato e gli sorridono con benevolenza, ma lui non si accorge perché dorme e nel sogno ritrova il caldo profumo del seno materno. Attraversano la strada, dall’altra parte, dove un’isola di emarginazione, fatta della stessa sostanza dell’uomo, si scontra con la ressa di appena qualche metro prima. Si abbassano con dolcezza, lei lo cinge con il suo mantello azzurro, perché sa che quello dorme da diversi giorni all’addiaccio, proprio in quel giaciglio di povertà e tristezza figlie dell’indifferenza e del cinismo. Il figlio dell’uomo porge la canna che ha in mano e gli consegna il posto migliore del suo Regno, sorridendogli con gli occhi scuri, sotto la barba ispida e grumosa di sangue rappreso.
Il clochard ricambia il loro abbraccio e chiude gli occhi, vorrebbe alzarsi ma non ne ha la forza, anche se i piedi non fanno più male e le mani sembrano avere la consistenza delle ali.
Che bello!
Ecco la felicità di quando era bambino, un ricordo lontano nel quale, ogni tanto, si rifugia per dimenticare l’orizzonte.
Adesso si sente di nuovo a casa. Adesso può riposare, cullato dolcemente dall’unica voce di chi non lo ha dimenticato…