La ‘Ndrangheta è diventata mutante per infiltrarsi meglio nei gangli vitali dell’economia, della politica, della cultura e della società e per sfuggire ai controlli dello Stato e proteggere i propri colonnelli ed il proprio esercito dai rigori della legge.
E’ questo l’assunto al quale è arrivata la Direzione Investigativa Antimafia, nella relazione sul secondo semestre di attività per il 2014.
Dopo essersi mimetizzata, globalizzata, sommersa e camaleonticamente trasformata, quindi, la criminalità organizzata più potente e pericolosa del panorama interno ed internazionale ha aumentato la propria capacità di esportare il suo modello e le sue dinamiche criminali anche lontano dalla Calabria. Per farlo ha saputo sfruttare al meglio quell’area grigia che, da qualche anno, le ruota attorno e, soprattutto, le spiccate capacità di selezione e reclutamento dimostrate dai “colletti bianchi” delle cosche”.
Soggetti collegati – si legge nella relazione della Dia – “a vario titolo all’onorata società mutante” che sono alla continua ricerca, in Italia e all’estero, di contatti con imprenditori, dirigenti d’azienda, portatori d’interessi, professionisti, politici, rappresentanti delle istituzioni e della cultura. Una rete allargata che le cosche usano “per condizionare o entrare direttamente nei gangli vitali dell’economia, del commercio, della finanza, della pubblica amministrazione e del mondo dell’informazione”.
Tutto senza cambiare le proprie regole o mutare la propria organizzazione, anche se gli investigatori sono ancora alla ricerca del nuovo capo della mafia calabrese dopo l’arresto dell’anziano Mico Oppedisano, la ‘ndrangheta è alla ricerca di “possibili sinergie” con consorterie territorialmente limitrofe per allargare i propri affari.
Il business del narcotraffico prima di tutto.
In questo settore la criminalità organizzata calabrese è diventata “oligopolista”. Agli esponenti ‘ndranghetistici si rivolgono le altre mafie per approvvigionarsi della droga che arriva dal Sud America. I boss calabresi, per l’entità del giro d’affari gestito, possono essere “a pieno titolo considerati grossisti, alla stregua di rappresentanti di una multinazionale”.
I soldi fatti con il traffico delle sostanze stupefacenti, poi, sono la cassaforte della ‘ndrangheta che, però, non dimentica il controllo del territorio. Con i soldi della cocaina e dell’eroina, le cosche ammodernano il loro sistema criminale, lo adattano alle mutate esigenze e, attraverso operazioni di “money laundering”, riescono a penetrare il tessuto economico italiano e internazionale, si connettono con la “zona grigia” e riescono a penetrare la cosa pubblica.
“La capacità di interloquire con la politica – si legge ancora nella relazione della Dia – di rapportarsi ad essa e condizionarne le scelte, consente alla ‘ndrangheta di spingersi fino al controllo della cosa pubblica, specie in ambito locale, estendendo la propria influenza in un contesto sempre più ampio, sino al cuore dell’economia legale”. La sfida è difficile. Gli investigatori della Dia, infatti, sono convinti che la ‘ndrangheta possa mutare strategia per stabilire nuovi equilibri mafiosi “compiendo delitti di maggiore impatto sociale nella province calabresi (i segnali di maggiore criticità riguardano Reggio Calabria, la Locride, la Piana, il vibonese, il lametino, le Serre, il soveratese, l’Isolatano, il Cirotano e la Piana di Sibari), nelle regioni dell’Italia centrale e settentrionale, nonchè all’estero”.
L’allarme è lanciato, anche perchè “potrebbero perdurare tentativi, attraverso adepti e contrasti onorati, di osteggiare le iniziative antimafia, giudiziarie e non, attraverso mirate strategie mediatiche”.
IL PORTO DI GIOIA TAURO
Il Porto di Gioia Tauro è considerato dalla Dia, come già affermato dalla Direzione Nazionale Antimafia (LEGGI L’ARTICOLO), come la base della ‘Ndrangheta, un vero e proprio crocevia della droga (solo negli ultimi sei mesi del 2014 sono stati sequestrati al Porto di Gioia Tauro 329 kg di cocaina, proveniente dal sud America).
Per rimanere sulla stretta attualità, a riprova dell’importanza strategica del Porto di Gioia Tauro, ritroviamo le dichiarazioni rese dal nuovo pentito, Antonio Femia, 34enne di Marina di Gioiosa Jonica, capace, però, di svelare gli affari anche delle cosche della Piana di Gioia Tauro.
Le sue dichiarazioni sono state depositate dal sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria, Luca Miceli, nel processo “Puerto liberado“, scaturito da un’indagine sul traffico di sostanze stupefacenti nello scalo in provincia di Reggio Calabria e con gli arresti della famiglia Brandimarte.
Proprio sui Brandimarte il neo collaboratore Femia racconta diversi aspetti (confermati anche in un articolo del collega Claudio Cordova, su “Il Dispaccio”).
“I Brandimarte dicevano che erano loro i padroni del porto anche se poi lavoravano altre organizzazioni fra cui gli Alvaro. Non so quando i Brandimarte abbiano iniziato a operare. (…)
Per Gioia Tauro le organizzazioni si appoggiano sempre a loro; i Brandimarte, dicevano che al porto comandavano loro, possono fare quello che vogliono, che non hanno paura di nessuno”.
Proprio sugli Alvaro, Femia si concentra nei propri racconti: “Brandimarte e Alvaro erano in origine alleati. Ci fu poi un carico di 119 kili che è andato perso e i due soggetti si sono litigati. Perduto il carico i due dovevano pagare i committenti e Alvaro, che non si fidava di Brandimarte, non volle pagare e andò per conto suo. Dei portuali ne ho conosciuti alcuni. Tirmarchi era uno che controllava la movimentazione delle navi e predisponeva i turni dei portuali, sicuramente era responsabile di diverse importazioni non contestati nel procedimento Puerto Liberado. Nel mondo della droga sono entrato grazie a Nicodemo Fuda alias “u Rabecchiu” che conosco sin da piccolo, lui era collegato a soggetti di Rosarno”.
Meccanismi, cose e persone. Femia riversa il proprio patrimonio conoscitivo ai pm antimafia, riconoscendo diversi soggetti di interesse investigativo: “I Brandimarte a un certo punto “proliferarono come funghi“(…).
Normalmente acquisivano la droga poi provvedevano a rivenderla. Fuda era un soggetto che assicurava i contatti con i narcos esteri. Io e Fuda lavoravamo insieme e lui mi ha consegnato i telefoni. Io e Fuda aviamo fatto diversi viaggi.(…) Siviglia Francesco è compare di Alfonso Brandimarte, lavora con lui. È un socio di Brandimarte.
Gagliostro era un collaboratore di Alfonso Brandimarte, sostanzialmente gli guidava la macchina e lo coadiuvava. A proposito dei miei rapporti con Fuda, che rispetto a quanto indicato nella contestazione di “Santa Fè”, io sostanzialmente ero sotto di lui e non il contrario. Lui è molto furbo e figura il meno possibile. Fa lui gli investimenti e io dovevo semplicemente fare da tramite con Brandimarte e poi con Alvaro”.
Femia verrà coinvolto nell’inchiesta “Santa Fè”, condotta proprio contro un grosso traffico internazionale di droga. Poi deciderà di raccontare tutto agli inquirenti: “Ho deciso di collaborare con la giustizia per la mia famiglia e perchè Brandimarte mi ha indotto a confessare una mia responsabilità al limitato ed esclusivo fine di scagionarlo”.
Ai pm antimafia, Femia traccia il proprio profilo criminale: “Ho avuto sempre un comportamento poco consono- ha detto Femia ai pm- in particolare commettendo truffe anche con il mezzo informatico. Successivamente mi sono imbattuto in questioni di droga. Inizialmente assicuravo lo scarico della droga nel porto di Gioia Tauro perchè conoscevo le persone giuste. Grazie a questa mia riconosciuta serietà ho lavorato con i fratelli Alfonso Brandimarte e Nuccio.
Quindi ho via via assunto il ruolo di tramite fra i soggetti che avevano bisogno della droga e i Brandimarte. Costoro avevano una squadra di portuali infedeli, fra cui Vincenzo Trimarchi, imputato in “Puerto Liberado”. Il carico per cui fu arrestato Trimarchi, che era riconducibile ai Brandimarte, era di Giuseppe Alvaro nel senso che era il committente avendone finanziato l’acquisto in parte. In altra parte i Brandimarte”.
E dal racconto di Femia emerge uno spaccato molto interessante, dove restano latenti diversi temi, che la Dda potrà provare a sviluppare nei prossimi mesi: “Alfonso Brandimarte lavorava per sé. Ha fatto soldi, so che ha fatto investimenti .(…)
Mi fu fatta una proposta dai Brandimarte per fare da referente generale delle organizzazioni della Jonica. Io rifiutai perché sarebbe stato pericoloso per me, perché sarei stato troppo responsabilizzato. So che ci sono diverse squadre che lavorano nel porto. So che c’è anche la squadra degli Alvaro. Brandimarte ha delle entrature nelle forze di polizia. So che c’è ha collegamenti con la Finanza del porto, ha poi collegamenti con la Polizia”.
OMICIDIO MICHELE BRANDIMARTE
La Dia chiarisce anche l’omicidio del boss della ‘Ndrangheta,Michele Brandimarte.
“Il traffico di stupefacenti avrebbe determinato contatti tra i clan di Vittoria e il gruppo ‘ndranghetista dei Piromalli – Molè”.
Così la Dia ricorda che “il 14 dicembre del 2014 al Commissariato di Gioia Tauro si è costituito un soggetto (Domenico Italiano) confessando di aver ucciso a Vittoria un pregiudicato (Michele Brandimarte) per reati inerenti allo spaccio di stupefacenti ed affiliato alla cosca Piromalli – Molè” (LEGGI ARTICOLO).
Va detto, infine, che i Brandimarte sono a Processo d’Appello per una presunta faida con i Priolo.
La morte di Vincenzo Priolo, per la quale è stato condannato Vincenzo Perri, secondo l’accusa avrebbe dato il via ad una serie di delitti riconducibili ad una “faida” tra le due famiglie. Va ricordato infatti (LEGGI L’ARTICOLO) che Vincenzo Priolo era sposato con Damiana Brandimarte (cugina di Vincenzo Perri e figlia del defunto Michele Brandimarte e questa relazione, per alcuni pentiti, è all’origine della faida fra le famiglie.
LE FAMIGLIE DELLA PIANA
Nella parte occidentale della provincia di Reggio Calabria operano:
la societa di Rosarno, sintesi dell’incontro dei gruppi Piromalli, Molè, Pesce, Bellocco ed Oppedisano;
la locale di Oppido Mamertina, composta dai sodalizi Mammoliti-Rugolo, Polimeni-Mallagatti-Bonarrigo, Ferraro-Raccosta-Zumbo, Italiano-Papalia e Rugolo-Mammoliti della frazione Castellace di Oppido.
Altri consorzi pericolosi sono rappresentati da: i Bianchino (Anoia); i Lamari-D’agostino-Chindamo (Candidoni);
i Petulla-Ierace-Auddino, i Facchineri, i Foriglio-Tigani ed i Longo-Versace (tutti nella zona di Cinquefrondi);
l’influenza dei Longo e dei Petulla si estende anche nella zona di Polistena;
gli Albanese-Raso-Gullace (Molochio, Cittanova, Terranova, Sappo e Minulio);
i Facchineri (Cittanova, Giffone e San Giorgio Morgeto);
gli Alvaro (Sinopoli, Cosoleto, Delianuova, Melicucca, San Procopio, Sant’Eufemia in Aspromonte e Scido); gli Italiano-Papalia (Cosoleto e Delianuova);
i Lamari-D’agostino-Chindamo (feroleto della chiesa);
i Lamari-Chindamo (Galatro); i Nasone-Gaietti (Scilla); i La Rosa (Giffone); i Lamari-D’agostino-Chindamo (laureana di borrello);
i Franconeri (Maropati); i Mercuri-Napoli (Melicucco); i Parrello-Bruzzise, i Gallico ed i Santaiti-Gioffre (tutti in azione a palmi);
i Crea (Rizziconi); gli Albano-Lamalfa, i Cimato ed i Pantano (tutti di San Ferdinando); gli Italiano-Papalia ed i Cammaroto (attivi a Santa Cristina in Aspromonte e Scido); i Lamari-Chindamo (San Pietro di Carida);
i Parrello, i Santaiti-Gioffre-Siberia-Genialli ed i Caia-Lagana-Gioffre (presenti nell’aera di Seminara);
i Lamanna-Tassone-Albanese (Serrata);
i Cianci, gli Asciutto-Neri, gli Avignano-Zagari-vVola ed i Zappia (che agiscono a Taurianova); i Cianci, i Maio e gli Hanoman (presenti nella frazione S. Martino di Taurianova); i Fedele (Varapodio).
Un altro articolo denuncia scritto magnificamente e con coraggio da questo piccolo ma grande Giornalista Coraggioso……grazie Paolo per tutto quello che fai e per tutto il tuo coraggio! È devastante leggere questi articoli e vedere che nessuno fa nulla per impedire tutto ciò….ma io nn smetto di sperare che le cose possano cambiare anche grazie a persone come te e alle vostre splendide Forze dell’Ordine Siciliane che hanno tanto coraggio! Siete la mia speranza…Sempre con voi per la Giustizia e la Legalità.