Una “spina nel cuore” così ha definito il Papa la tragedia degli immigrati “che non deve più ripetersi”, durante la sua visita a Lampedusa. “Sono qui per scuotere le coscienze”, ha annunciato.
La visita del Papa ha “acceso i riflettori” su questa tragedia per un giorno, ma non ha affatto scosso le coscienze. Le coscienze rimangono al posto loro e nel fondo del mare giacciono, non si sa quante, vite umane.
Dopo l’indimenticabile tragedia avvenuta nel mio mare (Scicli), dove a volte vado a fare il bagno (non so se ci riuscirò a ritornarci), che ha visto 13 corpi privi di vita, stesi sulla sabbia e coperti da lenzuola bianche, a distanza di qualche giorno ecco l’ennesima tragedia a Lampedusa.
Questa volta, un barcone con a bordo circa 500 profughi eritrei e somali si è incendiato ed è naufragato a mezzo miglio dell’isola dei Conigli.
Sinora sono 103 i corpi recuperati, tra i quali anche quelli di donne e di bambini. Sono 155 le persone tratte in salvo, mentre centinaia di persone mancano all’appello. Presumo che il numero dei corpi senza vita aumenterà nelle prossime ore, se si riusciranno a recuperare. Altrimenti, il Mediterraneo dovrà custodire ancora altri corpi che nessuno di noi conoscerà.
E il plauso va sempre ai soccorritori e alla popolazione di Lampedusa che, come sempre, con grande umanità e allo stesso tempo con grande sofferenza, sono pronti a prestare aiuto a queste persone che, dopo il viaggio della “speranza” e della “libertà”, trovano l’abbraccio della morte.
Siamo noi, i siciliani ed in modo particolare la popolazione di Lampedusa e del Sindaco, Giusi Nicolini che in tutti questi anni, in particolare nel 2011, siamo stati testimoni diretti di visi e corpi sempre uguali e sempre diversi. Una scia di morti che ormai è diventata una vera e propria guerra contro una parte dell’umanità. Una guerra fatta di corruzione, delinquenza, spietatezza che utilizza uomini, donne e bambini in cerca di una vita migliore per interessi personali.
Ho avuto il piacere ma anche l’orrore di ascoltare per giorni interi la storia di un giovane tunisino, adesso ben integrato nella mia città. Una storia che ha dell’incredibile e del disumano a partire da quando questa gente decide di sfuggire alla miseria per cercare una vita migliore, degna di qualsiasi essere umano. Una vita dignitosa. Lui ha una famiglia numerosa, come tutti del resto in Tunisia. E non trovando opportunità e speranza di un futuro migliore ha deciso di partire per andare in Francia. Il suo sogno era la Francia, non l’Italia. E quando gli chiesi perché proprio la Francia, mi rispose che non lo sapeva di preciso ma guardando in tv quel paese era rimasto colpito da quella civiltà, da quello sviluppo, da quel benessere che in Tunisia non c’era. E per partire alle volte di quel paese amato e tanto sognato il padre ha dovuto lavorare giorno e notte. Il prezzo da pagare per la libertà era di duemila euro. Passarono mesi prima che lo chiamò uno dei tanti messaggeri che aveva conosciuto, dicendogli: “prepara i soldi, non ti portare niente perché si parte tra due ore. Ti vengo a prendere io”. Poche ore per salutare la famiglia e per prendere il portafoglio con le foto di tutti. Poi inizia il calvario.
Lo fanno salire in una macchina. Ad un certo punto lo bendano e dopo ore di viaggio, senza vedere nulla, si trova in una campagna deserta. Davanti un casolare. Lui emozionatissimo, stava andando in contro ad una nuova vita non sapendo però cosa lo aspettava. Lo portano dentro il casolare. Dentro trova una folla incredibile di persone come lui, divise in due stanze. Entrò da una porta e vide tutte le finestre e le altre porte chiuse con le sbarre di ferro. Nella stanza dove stava aveva lo spazio necessario per sedersi (non poteva neanche stirarsi sul pavimento per riposare perché erano in tanti in una stanza piccola). Per un mese sono rimasti chiusi lì dentro senza vedere mai la luce. Due volte al giorno portavano loro tre pentole grandi di pasta con olio, a pranzo e a cena. Per mangiare dovevano usare le mani e per bere dividevano tutti le bottiglie d’acqua che scarseggiavano durante il giorno. Dopo un mese esatto, di notte entrano degli uomini con dei passa montagne e li prelevano come fossero animali per portarli nei barconi. Prima si fanno dare i soldi.
E, inizia l’altro calvario. Mi racconta di aver viaggiato per quattro giorni prima di sbarcare a Lampedusa. E sono stati i quattro giorni più brutti della sua vita. Il barcone era strapieno. Non mangiavano, non bevevano e facevano i bisogni nel loro stesso posto. Non avevano spazio per muoversi. Chi si muoveva veniva picchiato o frustrato. Nel suo barcone c’erano quattro bambini che non riuscivano nemmeno a versare una lacrima talmente disidratati e privi di forze. C’erano anche le donne che sono arrivate sfinite. Due donne morirono prima di arrivare e vennero gettate in mare come se fossero sacchi di spazzatura. “Un lungo viaggio che sembrava non finire mai e che a volte ti faceva perdere la speranza e ti faceva pensare che non ce l’avresti mai fatta”. Solo quando si iniziò a vedere la costa si videro quei pochi volti sorridere. Erano quelli che non avevano perso la speranza, quelli più forti. “Io, per fortuna ero tra questi”.
Ma il calvario non finisce qui. Loro sicuramente sono stati fortunati perché sono arrivati a destinazione. E nonostante la meravigliosa accoglienza da parte della popolazione dell’isola, i giorni trascorsi all’interno del centro di “accoglienza” sono stati altrettanto disumani. I Servizi Igienici, consegnati in ottime condizioni, dopo pochi giorni diventavano un campo di battaglia e all’interno del centro si respirava un’aria soffocante. Troppe persone in un posto che ne poteva contenere almeno la metà.
I cittadini dell’isola li andavano a trovare nonostante non potevano entrare all’interno del centro. Alcuni guardavano per curiosità, altri erano gentili e salutavano. Altri ancora gli passavano le sigarette. Lui conobbe un medico molto gentile che riuscì a farlo scappare per poi arrivare nella mia Provincia. Adesso vive a Ragusa, ha un buon lavoro ed è sposato con una donna della mia città che le ha dato la gioia più grande della sua vita: un figlio. Ma dentro di sé rimane sempre impresso quel ricordo. E ogni volta che legge o vede suoi fratelli morire pensa che al loro posto poteva esserci lui. E questi ricordi, che spesso riemergono, non portano sonni e sogni sereni.
Ecco, non ho raccontato nei dettagli la sua storia ma ricordo perfettamente tutto, anche ciò che ha vissuto all’interno del centro di accoglienza. Voi pensate a vostro figlio, vostro fratello, vostro nipote se venissero chiusi per mesi dentro una stanza grande insieme a centinaia di persone. A prescindere se le condizioni del centro siano buone o meno. Pensateci un attimo e cercate di provare a capire in quali condizioni vive questa gente nei centri di accoglienza.
La vita all’interno del centro è disumana, con una persistente violazione della dignità della persona, non solo dei diritti umani. La metà degli internati riesce a fuggire non perché è delinquente ma perché non aveva scelto di lasciare la famiglia e gli affetti per restare chiuso dentro una stanza dopo il calvario vissuto per arrivare nelle nostre coste. Il mio caro amico mi disse: “è come se tu vai a fare un viaggio per stare meglio e ti trovi dentro una prigione senza aver fatto nulla di male”. “diventi nervoso, ti arrabbi perché non capisci per quale motivo ti abbiano messo in prigione”. “Tu pensi che sei in prigione, lo pensi davvero”. “E quindi cosa fai? Cerchi di scappare dalla prigione”. “non era questo quello che avevi sognato”. “non era questo quello per cui mio padre aveva fatto sacrifici lavorando anche la notte”.
E i responsabili di tutto questo, di queste torture, di queste tragedie, di questi crimini umani sono sempre al loro posto.
E non accetto che si proclami il lutto nazionale. Non posso accettarlo quando l’elenco delle vittime, senza nome e ingoiate dal Mediterraneo, cresce a dismisura ogni mese, ogni anno. Secondo fortress europe, dal 1994 nel solo canale di Sicilia sono morte oltre 6.200 persone, di cui 4.790 disperse. Il 2011 e’ stato l’anno peggiore: tra morti e dispersi, sono scomparse almeno 1.800 persone, 150 al mese, 5 al giorno.
Come ha detto oggi il Sindaco di Lampedusa, che è stata lasciata da sola insieme ai suoi cittadini: “non abbiamo più spazio né per i vivi, né per i morti”. I centri di accoglienza sono strapieni così come il cimitero.
In Sicilia siamo da anni in lutto. E mi chiedo dove sono lo Stato e l’Unione Europea. Non hanno fatto nulla per evitare queste tragedie. Eppure si sa. Si sa come stanno le cose. Che arrivano barconi quasi ogni giorno. Quindi, con tutto il rispetto evitiamo queste formalità. Evitiamo le visite patetiche di solidarietà perché noi di queste “facciate” non ce ne facciamo assolutamente nulla. E lo dico con rabbia e convinzione perché non possiamo continuare a tacere di fronte a queste disumanità. Sentire l’odore della morte. Vedere questi cadaveri privi di un fiore, di una carezza o di una lacrima da parte dei loro cari che non sanno dove sono i loro figli, le loro madri, i loro fratelli. Vederli stesi lì a terra con lo sguardo e le braccia (ho visto una donna con le braccia alzate, impietrite) rivolte al cielo e con impresso il loro sogno di speranza e libertà che non si potrà mai realizzare. Vedere ragazzi che come me avevano dei sogni che mai si potranno avverare. Vedere donne che in grembo portavano un figlio. Ma ancora peggio sapere che molti di loro sono in fondo al mare e nessuno mai potrà vedere i loro volti. E vedere i superstiti in condizioni disumane. Disidratati, infreddoliti, con gli occhi impauriti e testimoni di questi drammi. Tutto questo non si potrà dimenticare anche quando tra qualche giorno l’Italia dimenticherà.
“Se questo è un uomo”, la poesia di Levi che oggi ho riletto con grande rammarico perché non siamo riusciti ad evitare che la storia, anche se in modo diverso, si ripetesse. Quello degli immigrati che attraversano il Mediterraneo è il “nuovo” genocidio di cui tutta l’Europa, che non ha mai attivato misure efficaci per evitare questi disastri, è responsabile. Così come l’Italia che con la Bossi-Fini ha decretato la morte di queste vittime innocenti che fuggono dalla miseria, dalle guerre, dai soprusi semplicemente per una vita migliore di cui tutti ne abbiamo diritto.
Nel vedere il mio mare, il Mediterraneo, diventare un cimitero di fratelli mi ha lasciato quella sensazione in cui ti senti un fallito, un perdente. Perché noi siamo tutti dei perdenti!