Cosa c’è di peggio che uccidere una persona? E’ cancellarne la memoria, ucciderne il ricordo, farlo perdere nel nulla, lasciarlo in un limbo eterno, in uno spazio dove non c’è più vita, ma non c’è neanche la certezza della morte.
Stiamo parlando della famigerata “lupara bianca”. L’arma più usata dai corleonesi, da Luciano Liggio, da Riina e da Provenzano, sono centinaia le persone scomparse nel nulla. Come se la vita non lasciasse spazio alla morte. Persone delle quali non c’è neanche una “dichiarazione di morte presunta”.
Piloni, pozzi, ponti e cisterne a rappresentare quel limbo eterno, un destino inghiottito in silenzi mafiosi ed omertosi.
E sono tante, in Provincia di Siracusa (e, in particolare, nella zona meridionale della provincia, la zona netina) le persone scomparse, senza un perché. Solo dubbi atroci, domande disperate che non troveranno (quasi) mai risposta. E tanto dolore, per i familiari, per le madri che cercano con cocciutaggine una verità che solo in alcuni, rari, casi riusciranno a far venir fuori.
Le Forze dell’Ordine e la Magistratura, spesso, arrivano “dopo” a scoprire “vite sospese”, morte solo a causa del tempo passato.
Eppure non si arrendono, cercano, si interrogano, scavano. Anche a distanza di anni.
Il lavoro degli inquirenti è spesso “solitario”, senza risposte immediate, a volte incerto e senza gloria, altre volte hanno l’amara gloria di ridare un nome a dei resti, scrutando fra dichiarazioni che vengono ritrovate fortuitamente o, grazie, alla “memoria ritrovata” di nuovi collaboratori di Giustizia.
I boss riescono a dormire senza preoccuparsi della disperazione dei familiari a cui hanno annientato la vita e reso impossibile il sonno.
Per loro rappresenta una vittoria.
A volte, però, capita che questa vittoria sia momentanea e che, all’improvviso, escano prove che tendono a far comprendere i fatti, magari anche parzialmente.
Basta anche una chiacchierata in carcere fra un boss ed i propri familiari (come le tante di Antonino Pinuccio Trigila? Una volta tanto, anche i boss parlano “troppo”).
Uno sguardo, un gesto, una domanda ed una risposta data in maniera criptica.
E ci siamo.
A volte serve anche che qualcuno “spinga” affinchè la verità venga fuori: una verità che non riporterà in vita una persona, ma che darà un minimo di ristoro alla sofferenza dei genitori.
LA SCOMPARSA DI GIOACCHINO POMILLO
Gli inquirenti ed i Magistrati, dicevamo, come nel caso (fra i tanti) di Gioacchino Pomillo, nato a Noto il 14 aprile 1954 e scomparso il 5 giugno del 1991.
Di Pomillo venne dichiarata la “morte presunta” a metà degli anni duemila, ma il Tribunale di Siracusa (con grande attenzione e voglia di far chiarezza) si oppose. Accadde il 15 settembre del 2005 ed il ricorso fu presentato su richiesta della Procura della Repubblica di Siracusa. Per la seconda volta in Gazzetta Ufficiale venne pubblicato l’annuncio il 15 settembre del 2010 che si concludeva con un disperato appello “Chiunque abbia notizie del suddetto (Gioacchino Pomillo) e’ pregato di farle pervenire al Tribunale di Siracusa, entro sei mesi”.
Ma anche quei sei mesi passarono invano. Senza notizie.
Così gli autori, ovunque si trovassero, avranno – una volta in più – pensato di averla fatta franca (o forse, non ci avranno pensato neanche più, visto il “modus vivendi” tracotante e sicuro dei mafiosi!).
Nel 2010 Pomillo avrebbe avuto 56 anni ed oggi ne avrebbe sei in più. Un’età maggiore, magari, rispetto a quella dei suoi aguzzini che incrociò quel giorno, drammatico della sua scomparsa.
Una vita spezzata, una delle tante per i boss, l’unica ed importantissima per i familiari.
Nel 2010, nell’anno che verrà ricordato per aver segnato l’inizio della “primavera Araba”, magari chi ha deciso di far scomparire quella vita (o quella di tanti altri) potrebbe averne avuti venti in meno, di anni. E magari, qualora esistessero colpevoli, qualcuno oggi potrebbe essere già in galera, mentre qualcun altro in libertà.
Una libertà strana, però, ovattata, con la speranza di non esser scoperti, come topi in trappola, la trappola di una responsabilità enorme. Si, la responsabilità ed il peso di “scomparse misteriose”. Quelle stesse scomparse che giudiziariamente peserebbero come un ergastolo ma un ergastolo, rispetto ad una vita di paura per esser scoperti, potrebbe esser poco. Certamente poco, sarebbe, per una vita spezzata.
Una vita sospesa, come tante, fra la vita eterna e la morte. Sulle quale, prima o poi, insieme ad altre, gli Inquirenti faranno chiarezza!
CARMELO TUMINO: E SE NON FOSSE STATO SUICIDIO?
Oltre alla “lupara bianca”, molto utilizzati dalla mafia sono i suicidi apparenti, noti con il termine di “suicidi di mafia”.
Quando morì, Carmelo Tumino, aveva soltanto 19 anni. Il ragazzo perse la vita cadendo da un ponte e, sin da subito, tutti pensarono ad un suicidio.
Eppure, come si diceva prima, la verità non sempre è quella che appare.
Potrebbe essere il caso di Tumino.
Vediamo il perché.
E’ Zafer Yildiz a dare una pista, molto importante.
L’uomo è soprannominato Raffaele u turcu ed è stato coinvolto (e condannato) nell’operazione Nemesi.
Zafer Yildiz, uscendo dal carcere di Cavadonna per fine pena, parla con il cognato, Michele Vaccarisi che lo va a prendere.
I due, facendo il punto della situazione criminale nella realtà di Avola, parlano di uno dei soggetti più pericolosi e di grande carisma (oggi in carcere), Marco Di Pietro, detto Marco Motta (PER INFO LEGGI ARTICOLO).
Tralasciando dettagli inutili della conversazione, Zafer Yildiz chiede al cognato se Marco Di Pietro abbia possibilità di esser presto scarcerato. Vaccarisi, ritenendo improbabile tale ipotesi, afferma: “lui (Marco Di Pietro) ha paura di quello, (del nuovo collaboratore di Giustizia). Si spaventa per quel fatto, “ro picciriddu ittatu rintra o ponte…”.
Non è difficile fare il collegamento fra il “picciriddu ittatu rintra o ponte” ed il povero Carmelo Tumino (anche per altri elementi che non riveliamo).
Un ragazzo (u picciriddu, appunto) che (forse) ebbe solo la sfortuna di incontrare sulla propria strada un uomo senza scrupoli come Marco Di Pietro.
Anche su questa morte, apparentemente “senza macchia”, forse qualcuno pagherà.
Intanto è giusto che la gente sappia, perché non tutto è come appare, soprattutto quando si chiudono gli occhi dinanzi alle malefatte dei delinquenti e si accetta un clima di omertà…