“Valutare nuovamente se sussistano o meno i presupposti per concedere a Toto’ Riina il differimento della pena o gli arresti domiciliari per motivi di salute”.
E’ quanto ha disposto la Cassazione, che, accogliendo il ricorso presentato dalla difesa del boss di Cosa nostra, ha annullato con rinvio la decisione del tribunale di sorveglianza di Bologna che aveva detto ‘no’ alla concessione di tali benefici penitenziari, nonostante le gravissime condizioni di salute in cui Riina versa da tempo.
Il giudice bolognese aveva ritenuto che le “pur gravi condizioni di salute del detenuto” non fossero tali da “rendere inefficace qualunque tipo di cure” anche con ricoveri in ospedale a Parma (nel cui penitenziario Riina e’ recluso al 41 bis) e osservato che non erano stati superati “i limiti inerenti il rispetto del senso di umanita’ di cui deve essere connotata la pena e il diritto alla salute”.
Il tribunale di sorveglianza di Bologna, invece, metteva in evidenza la “notevole pericolosita’” di Riina, in relazione alla quale sussistevano “circostanze eccezionali tali da imporre l’inderogabilita’ dell’esecuzione della pena nella forma della detenzione inframuraria”. Oltre all'”altissimo tasso di pericolosita’ del detenuto”, il giudice ricordava “la posizione di vertice assoluto dell’organizzazione criminale Cosa nostra, ancora pienamente operante e rispetto alla quale Riina non ha mai manifestato volonta’ di dissociazione”: per questo, osservava il tribunale bolognese, era “impossibile effettuare una prognosi di assenza di pericolo di recidiva” del boss, nonostante “l’attuale stato di salute, non essendo necessaria, dato il ruolo apicale rivestito dal detenuto, una prestanza fisica per la commissione di ulteriori gravissimi delitti nel ruolo di mandante”.
La prima sezione penale della Suprema Corte, con una sentenza depositata oggi, ha ritenuto fondato il ricorso, definendo “carente” e “contraddittoria” la decisione del tribunale di sorveglianza, che ha omesso di considerare “il complessivo stato morboso del detenuto e le sue generali condizioni di scadimento fisico”: affinche’ la pena non si risolva in un “trattamento inumano e degradante”, ricordano i giudici di piazza Cavour, lo “stato di salute incompatibile con il regime carcerario, idoneo a giustificare il differimento dell’esecuzione della pena per infermita’ fisica o l’applicazione della detenzione domiciliare non deve ritenersi limitato alla patologia implicante un pericolo per la vita della persona, dovendosi piuttosto – si legge nella sentenza – avere riguardo ad ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare un’esistenza al di sotto della soglia di dignita’ che deve essere rispettata pure nella condizione di restrizione carceraria”.
I giudici del ‘Palazzaccio’, inoltre, osservano che “ferma restando l’altissima pericolosita’” di Riina e “del suo indiscusso spessore criminale”, il tribunale di sorveglianza non “chiarisce come tale pericolosita’ possa e debba considerarsi attuale” data la “sopravvenuta precarieta’ delle condizioni di salute e, del piu’ generale stato di decadimento fisico” del boss.
La decisione del giudice bolognese, secondo la Cassazione, non spiega come “si e’ giunti a ritenere compatibile con le molteplici funzioni della pena e con il senso di umanita’” imposte dalla Costituzione italiana e dalla Convenzione europea dei diritti umani “il mantenimento in carcere” di Riina, viste le sue condizioni di salute: la Corte afferma quindi “l’esistenza di un diritto di morire dignitosamente, che deve essere assicurato al detenuto e in relazione al quale il provvedimento di rigetto del differimento dell’esecuzione della pena e della detenzione domiciliare deve espressamente motivare”, anche tenuto conto delle “deficienze strutturali della casa di reclusione di Parma”.
Il giudice di merito, dunque, deve “verificare, motivando adeguatamente in proposito, se lo stato di detenzione carceraria comporti una sofferenza ed un’afflizione di tali intensita’ da eccedere il livello che, inevitabilmente, deriva dalla legittima esecuzione di una pena”. Infatti, le “eccezionali condizioni di pericolosita’” per cui negare il differimento pena devono “essere basate su precisi argomenti di fatto – conclude la Cassazione – rapportati all’attuale capacita’ del soggetto di compiere, nonostante lo stato di decozione in cui versa, azioni idonee in concreto ad integrare il pericolo di recidivanza”. Sulla base delle indicazioni e dei principi espressi della Suprema Corte nella sentenza di oggi, il tribunale di sorveglianza di Bologna dovra’ riesaminare le istanze delle difesa di Riina.
Mafia: Bindi, Riina ha cure assicurate, no sospensione pena
“Leggeremo con attenzione le motivazioni della Cassazione. Ma Toto’ Riina e’ detenuto nel carcere di Parma dove vengono assicurate cure mediche in un centro clinico di eccellenza. E’ giusto assicurare la dignita’ della morte anche ai criminali, anche a Riina che non ha mai dimostrato pieta’ per le vittime innocenti. Ma per farlo non e’ necessario trasferirlo altrove, men che meno agli arresti domiciliari, dove andrebbero comunque assicurate eccezionali misure di sicurezza e scongiurato il rischio di trasformare la casa di Riina in un santuario di mafia. Dopo terribili stragi e tanto sangue, il piu’ feroce capo di Cosa Nostra e’ stato assicurato alla giustizia e condannato all’ergastolo, anche se vecchio e malato, la risposta dello Stato non puo’ essere la sospensione della pena”. Lo ha affermato la presidente della Commissione parlamentare Antimafia, Rosy Bindi.
Riina: Roberti “no a scarcerazione, e’ ancora capo Cosa nostra”
Franco Roberti, procuratore nazionale Antimafia, non cambia idea: “Toto’ Riina deve restare in carcere e soprattutto deve rimanere in regime di 41 bis”. “Abbiamo elementi per ribadire che Toto’ Riina e’ il capo di Cosa nostra”, ha spiegato in un’intervista al Corriere della Sera, “non abbiamo mai negato che sia affetto da una patologia pesante, ma si tratta di uno stato di salute che puo’ essere adeguatamente trattato nell’ambiente carcerario”.
Roberti aveva gia’ espresso parere contrario a un cambio del regime detentivo per il boss mafioso e dopo aver letto la sentenza della Corte di cassazione che invita giudici a riesaminare le istanze tenendo conto della dignita’ del recluso, ha negato che vengano violati i diritti del detenuto. “E’ proprio l’aspetto che abbiamo valutato e scartato. Del resto gli stessi giudici della Cassazione dicono che la sentenza del Tribunale di Bologna che rigettava l’istanza sull’incompatibilita’ della reclusione con lo stato di salute, ha una motivazione insufficiente e contraddittoria. Quindi bastera’ ovviare a queste carenze”. “Sono tranquillo, fiducioso che alla fine il Tribunale di Bologna ribadira’ le nostre ragioni”, ha detto il procuratore nazionale Antimafia. “Vorrei ricordare che il pubblico ministero Nino Di Matteo vive blindato proprio a causa delle minacce che Toto’ Riina ha lanciato dal carcere. Se non e’ un pericolo attuale questo, mi chiedo che altro dovrebbe esserci. Posso comunque assicurare che su questo punto saremo in grado di fornire motivazioni piu’ stringenti proprio come ci viene chiesto”.
= SCHEDA = Mafia: Riina, il ‘capo dei capi’ mai domato dal 41 bis
Oltre 24 anni sono passati dalla cattura di Toto’ Riina. Quel 15 gennaio 1993, lungo la circonvallazione di Palermo finiva la trentennale latitanza del feroce capo dei capi di Cosa nostra, colui che aveva dichiarato guerra al Paese e che aveva azionato la ‘catena del tritolo’ in Sicilia e nel continente. Bomba dopo bomba, strage dopo strage. Il 16 novembre compira’ 87 anni, minato nel corpo dalla malattia, ma ritenuto ancora influente, capo riconosciuto ancora oggi, capace di dare ordini e comminare sentenze di morte. In base a una di queste, formulate dal carcere, contro il Pm Nino Di Matteo, del resto, e’ stata elevata al massimo grado la protezione del magistrato.
L’ASCESA DELLA ‘BELVA’ DI CORLEONE – La carriera criminale di ‘Toto’ u curto’, ‘la belva’, e’ precoce: appena diciannovenne e’ condannato a 12 anni, pena scontata parzialmente all’Ucciardone, per aver ucciso in una rissa un suo coetaneo. Si lega a Luciano Liggio e con lui e’ protagonista nei primi anni Sessanta di una cruenta guerra di mafia contro il capomafia di Corleone Michele Navarra. E’ tra gli esecutori il 10 dicembre 1969 della strage di viale Lazio a Palermo e sostituisce spesso Liggio nel triumvirato provvisorio di cui fa parte con i boss Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti. Coltiva collegamenti con la ‘ndrangheta e la camorra, con i fratelli Nuvoletta, camorristi napoletani affiliati a Cosa Nostra, con cui avvia un contrabbando di sigarette. E nel 1974, dopo l’arresto di Liggio, diventa il reggente della cosca di Corleone e da qui esercitera’ la sua influenza sulla Commissione di Cosa nostra, manovrando Michele Greco.
Un’ascesa vertiginosa militare ed economica, a colpi di lupara e mitra, con il controllo di pezzi consistenti di economia, le aderenze alla politica che conta, grazie al solido asse costruito con Vito Ciancimino, il sindaco mafioso di Palermo, e con il potente ras democristiano Salvo Lima. Una invincibilita’ che appariva tale anche sul piano giudiziario, fino al maxiprocesso e al 30 gennaio 1992 quando la Cassazione conferma gli ergastoli, sancendo l’attendibilita’ delle dichiarazioni del pentito Tommaso Buscetta e demolendo il mito di una mafia inattaccabile.
LA GUERRA AL PAESE – Era gia’ matura la risposta stragista. E’ Riina a decidere la strage di Capaci come quella di via d’Amelio, in occasione degli auguri di Natale del 1991, nel corso di una riunione della Commissione provinciale. Durante quell’incontro il capo di Cosa nostra dichiara guerra allo Stato, decretando l’eliminazione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino considerati da sempre nemici della mafia, e di alcuni politici ritenuti inaffidabili. Il clima e’ gelido. Si tratta di una calcolata e rabbiosa resa dei conti. A portare a compimento la strage di via d’Amelio, sarebbe stato il mandamento di Brancaccio, considerato il filo conduttore della stagione stragista, iniziata nel maggio 1992 con l’attentato di Capaci e conclusasi con le stragi nel continente. Ad azionare il telecomando che fece saltare in aria l’auto imbottita di tritolo sotto l’abitazione della madre del giudice, il boss Giuseppe Graviano. Proprio la sentenza del maxiprocesso, devastante per Cosa nostra, sarebbe, secondo la procura di Caltanissetta che ha portato recentemente a sentenza il quarto processo Borsellino, una delle cause scatenanti della follia stragista. Cosa nostra guidata da Riina aveva attivato tutti i canali istituzionali disponibili per arrivare all’aggiustamento finale della sentenza. Ma si era sentita abbandonata dai suoi referenti istituzionali. Altro fattore, non meno rilevante, sarebbe quello secondo il quale Borsellino sarebbe stato a conoscenza dei contatti tra pezzi delle istituzioni e Cosa nostra e si sarebbe opposto alla presunta trattativa, fermo restando che le indagini del giudice davano particolarmente fastidio agli uomini di Cosa nostra. Peraltro, questi erano pronti a sedersi a tavola per mangiare con politici e imprenditori. Da qui, la paura che il giudice Falcone mettesse le mani sul rapporto mafia e appalti. In ogni caso, cosi’ come aveva deciso Riina, bisogna fare in fretta e agire in maniera eclatante. Il secondo processo per la strage di Capaci ha individuato un mandante che era sfuggito nelle precedenti ricostruzioni giudiziarie, Salvuccio Madonia, ma ha ricostruito soprattutto tutta la fase legata al reperimento, da parte di Cosa nostra, dell’esplosivo. Tritolo utilizzato anche nelle altre stragi del ’93 e che avrebbe consentito a Riina, con tutto l’esplosivo di cui disponeva, di fare la guerra allo Stato, come riferi’ Giovanni Brusca riportando una frase del capomafia corleonese. L’individuazione della nuova “catena del tritolo” e’ stata oggetto di indagini anche da parte della Procura di Firenze.
DAL CARCERE ORDINI DI MORTE: “A DI MATTEO LA FINE DEL TONNO” – Riina risulta pericoloso anche dal carcere. Il 41 bis reiterato fa leva su questa consapevolezza, sulla misura del prestigio di cui ancora gode tra le cosche. In forza di questo il Pm Nino Di Matteo diventa la “personalita’” piu’ protetta, d’Italia, al pari del presidente del Consiglio: 9 carabinieri del Gis, 4 suv blindati di cui uno dotato di bomb jammer (un dispositivo capace di inibire i telecomandi). “Di questo processo, questo pubblico ministero di questo processo, che mi sta facendo uscire pazzo, per dire, come non ti verrei ad ammazzare a te, come non te la farei venire a pescare, a prendere tonni. Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono. Ancora ci insisti? Minchia…. perche’ me lo sono tolto il vizio? Me lo toglierei il vizio? Inizierei domani mattina”: Riina parla durante l’ora d’aria. E’ il 26 ottobre 2013 e tutte le intercettazioni confluiscono proprio nel processo che si celebra nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo. “Questo Di Matteo, questo disonorato … Io penso che lui la paghera’ pure… lo sapete come gli finisce a questo la carriera? Come gliel’hanno fatta finire a quello palermitano, a quello il pubblico ministero palermitano… Scaglione. A questo gli finisce lo stesso”. In uno dei primi colloqui intercettati durante l’ora di socialita’ – il 17 ottobre 2013 – il boss di Corleone dice (riferendosi alla stagione delle stragi):… “poi saltano in aria quando gli succede quello che gli e’ successo…. che saltano in aria… perche’ saltate in aria… statevi zitti”. Il 16 novembre del 2014 Riina punta di nuovo il pm palermitano: “Vedi, vedi, si mette la’ davanti, guarda cosi’… mi guarda, guarda con gli occhi puntati cosi’ e io pure… a me non mi intimorisce… E allora organizziamola questa cosa! Facciamola grossa”.