“Memorie dal sottosuolo”, un libro piccolo dalla forza dirompente…

Rieccomi qua dopo qualche domenica di assenza con un’altra opera di Dostoevskij dalla mole contenuta ma dal contenuto enorme.

Memorie dal sottosuolo è un libro piccolo e sottile di poco meno di 150 pagine, ma ha una forza dirompente, una capacità spiazzante di indurre alla riflessione e all’autoanalisi, al disgusto e all’esaltazione di sé. Fa malissimo e fa benissimo.
Più che un libro è uno schiaffo sonoro, ma per certi versi anche una carezza comprensiva, un modo di sentirsi meno soli e incompresi, meno nerd.
L’ho amato con una passione ardente, con empatia da pelle d’oca.

Chi ha un solido equilibrio interiore e un’autostima ferrea, o semplicemente molto senso pratico, potrebbe trovarlo patetico, disperato e deprimente. In fondo è così: è la storia, o meglio lo sfogo, di un perdente e può essere capita e amata solo da lettori “perdenti”.

Con perdente non voglio dire necessariamente un fallito cronico, ma una creatura ipersensibile, problematica, diversa, in totale disarmonia con l’ambiente sociale che lo circonda di cui non riesce mai ad essere parte, cosa di cui si dispiace e compiace allo stesso tempo.
Tale inclinazione lo porta ad essere costantemente irritato, arrabbiato, offeso e offensivo, con se stesso e con gli altri, un riottoso rintanato nel suo rifugio asociale, nel suo angusto sottosuolo.
È da lì che il protagonista narra le sue memorie, episodi del passato che lo hanno segnato: tentativi di sfide a duello, provocazioni gratuite ad amici e sconosciuti, umiliazioni.

Credo che la vanità e il malcontento siano da sempre le due grandi condanne dell’uomo un po’ più intelligente della media, quel continuo e lacerante oscillare tra celebrazione della propria differenza, della propria superiorità intellettiva e culturale e l’odio di sé per l’incapacità di essere normali, felicemente mediocri.
La fonte dell’infelicità è tutta lì.

C’è una frase, fra tutte (ne ho sottolineate centinaia), che mi ha toccato ed è andata a far vibrare le corde disconnesse della mia esistenza da 30enne non ancora (e forse mai) definita da vari punti di vista e tendente spesso alla clausura fiera nel sottosuolo, ed è la seguente:

Non solo cattivo, ma proprio nulla sono riuscito a diventare: né cattivo, né buono, né furfante, né onesto, né eroe, né insetto. E ora vegeto nel mio cantuccio, punzecchiandomi con la maligna e perfettamente vana consolazione che l’uomo intelligente non può diventare seriamente qualcosa, ma diventa qualcosa soltanto lo sciocco.

E poco dopo aggiunge:

Vi giuro, signori, che essere troppo coscienti è una malattia, un’autentica, completa malattia.

Cioè, capite?

Sono sempre stata convinta che la troppa coscienza, la troppa sofisticazione mentale e l’intelletto troppo raffinato nobilitino e degradino l’uomo, uccidendolo lentamente; e sono sempre stata convinta che l’uomo attivo dall’intelligenza basic ma pratica sia il vero vincente, il vero vivente.
Il fatto che Dostoevskij mi dia ragione non migliora le cose, ma mi fa sentire molto meglio e per questo lo ringrazio.

http://margherita-nulladipreciso.blogspot.it/

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Margherita Ciacera è laureata in Lettere moderne e in Studi critici sul cinema e gli audiovisivi. I libri e i film sono il suo pane quotidiano: non le garantiscono la pagnotta, ma la arricchiscono diversamente. Scrive per diletto e cura il blog http://margherita-nulladipreciso.blogspot.it/ dove parla perlopiù di cinema e letteratura. Cura per La Spia la rubrica “La libreria di Margherita”.

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