Modica, sono le otto del mattino…

Sono le otto del mattino.

Il sole, dopo avere fatto capolino da dietro il tetto scoperchiato del Palazzo De Naro Papa, ha già ricoperto di luce la possente mole della chiesa di S. Giovanni. 

Il silenzio del quartiere ancora sonnecchiante viene leggermente accarezzato da allegri cinguettii di uccelli di cui io, uomo di città, ammetto di non conoscere il nome. 

Il cielo, azzurro sopra la mia testa, sbianca dolcemente verso l’orizzonte per assumere, sopra la campagna modicana, il rossore di un nuovo giorno che sembra timidamente chiedere scusa per essersi mostrato al cospetto del creato.

Sono le otto in punto. 

Le campane, le cui note sono impercettibilmente precedute da possenti colpi di batacchio, accordano il canto dell’ora. Fanno eco, quasi subito, altre campane più lontane, dapprima da S. Antonino e poi da Modica Bassa, annullando ogni distanza, ogni altezza, ogni luce ed ogni ombra, perché quello è il coro della Domenica, l’inno che annuncia a breve la rinnovata liturgia della fede.

Tra un rintocco e l’altro, c’è una quiete che avvampa, una pace lucida che accoglie come il mare caldo delle sere di luglio, quando il sole sembra immergersi nell’acqua, facendo brodo.

Un istante solo, nel bel mezzo dell’incalzante diofono, sembra dilatarsi all’infinito, come un elastico del tempo nel quale la mia stessa esistenza assume i colori del cielo, della pietra, delle foglie e dei tronchi dei ficus ed io stesso divento parte di un tutto e tutto mi appartiene, a partire dal bosone primordiale fino alla più lontana delle costellazioni universali. 

E mi sento finalmente al posto giusto.

E’ un’esperienza durata un attimo, quasi un lampo che imprime sugli occhi una verità assoluta, impercettibile e immediatamente imperscrutabile, un fulmine di bellezza incrinata da un sibilo ottuso ed impertinente, subdolamente inerpicato da Corso Principessa Maria del Belgio e via via fino alla Piazza S. Giovanni verso Via Gesù.

Un’automobile sportiva, con la marmitta modificata strombazza a colpi d’acceleratore, mi passa davanti vanitosa, sporca l’aria, subito intrisa di monossido di carbonio, mentre le campane ammutoliscono quasi stizzite.

Il bassotto mi guarda impaziente e curioso, come se avessi qualcosa di strano appiccicato sulla faccia. 

Ricambio rassegnato il suo sguardo e non ho altro da dire: “Sì, hai ragione tu, torniamo a casa…”

 

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