Modica e quell’ordinanza “farlocca” di chiusura dei negozi nel giorno di Pasquetta

Dopo la protesta dei lavoratori di un noto centro commerciale modicano, contro la decisione di tenere questa struttura aperta anche nel giorno di pasquetta, il Sindaco di Modica ha emesso un’ordinanza di chiusura, per questa stessa ricorrenza, di tutti gli esercizi commerciali, motivando tale scelta sulla base di una presunta ragione di pubblica sicurezza e incolumità (a pasquetta ci sarebbe, a parere del primo cittadino, molto più traffico che potrebbe aumentare se ci fossero anche i negozi aperti).

L’ordinanza ha generato una polemica e messo in attrito la parte dei lavoratori contro quella degli esercenti commerciali, con l’Ascom sul piede di guerra per non essere stata coinvolta in questo processo decisionale e per avere subito anche una non troppo velata minaccia del primo cittadino in ordine alle conseguenze di un mancato rispetto del suo provvedimento.

Ecco cosa penso io.

In via preliminare, appare evidente la natura “farlocca” della motivazione addotta e che  l’ordinanza è stata assunta per il solo scopo di “favorire” i lavoratori di quel centro commerciale.

Altrettanto evidente la finalità di tipo elettoralistico del provvedimento, se consideriamo che, da cinque anni a questa parte, il primo cittadino non ha mai emesso un simile atto né si è mai posto il problema del lavoro festivo, mentre lo sta facendo solo adesso, a distanza di un paio di mesi dalle elezioni amministrative.

Nel merito, pur essendo (come sostiene qualche mio “ammiratore”) radical chic in cashemere (sebbene non abbia i soldi per mantenermi la preziosa lana), io resto un uomo convintamente di sinistra e, per tale motivo, rivendico, senza ricorso ad alcun espediente di tipo dialettico, il diritto dei lavoratori al riposo festivo, almeno per quanto riguarda i servizi non strettamente essenziali e di pubblica utilità (per la cui organizzazione, fortunatamente, c’è una legge che stabilisce criteri e modi).

Quello che più mi preoccupa e mi sconcerta, però, proprio perché sono un uomo convintamente e orgogliosamente di sinistra, è il fatto che nell’Italia del 2018, a causa di una serie di ragioni che qui non possiamo approfondire (dalla burocratizzazione dei sindacati alla crisi economica “che tutto giustifica”), un lavoratore debba essere costretto a rivolgersi ad una certa classe politica per chiedere una tutela, senza più passare dall’esercizio reciproco dei diritti delle parti in causa, ottenendo quindi una sorta di “protezione di natura feudale”, in quanto assunta di imperio e unilateralmente in vista di un successivo e conseguente atto di fedeltà elettorale.

D’altra parte, questo meccanismo, che sta alla base del deprecabile fenomeno clientelare, garantito dalla minaccia di sanzioni per chi non rispetterà il provvedimento concesso dall’autorità politica, impone l’idea dell’adeguamento. Ne consegue che in futuro, chi oggi subisce l’atto autoritativo, avvertendone la totale arbitrarietà politica, cercherà di aggiudicarsi per primo il sostegno del potere a difesa dei propri diritti, anche a discapito dei diritti altrui.

A questo punto l’autorità politica e amministrativa non è più arbitro che favorisce l’esercizio e il rispetto dei reciproci diritti in una logica di interesse comune, ma entra a gamba tesa nel gioco, alimentando un conflitto, di cui a medio-lungo termine, una delle due  parti, in genere quella più debole, finisce per pagare le conseguenze, oltre a radicare il morbo tipicamente meridionale dell’inefficienza e dell’arretratezza.

Divide et impera, dicevano i romani, per il solo scopo di rafforzare il proprio potere assoggettando gli altri.

Vi rendete conto che non siamo più nello Stato di Diritto, ma siamo oltre. Anzi, non siamo più nello Stato di Diritto, ma siamo tornati indietro nel tempo, qualche anno fa avrei detto agli anni ‘60, oggi ritengo ben oltre indietro, inghiottiti da un buco nero di regresso culturale e politico di fronte al quale bisognerebbe opporsi in ogni modo, a cominciare dal 10 giugno prossimo.

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