Come essere, oggi, nel mondo, i custodi del proprio fratello, e non coloro che, nuovi Caino, uccidono Abele, lavandosene – alla domanda del Signore – le mani con quella frase tremenda: “Sono forse io, il custode di mio fratello?” Il dialogo drammatico che nel libro biblico del Genesi apre la storia dell’umanità è stato il leitmotiv del discorso di papa Francesco, alla veglia di preghiera per la pace, sabato sera, in piazza san Pietro, affollata non solo di cattolici, ma anche di altri cristiani, di ebrei, musulmani, e poi “non credenti” e agnostici.
Mentre venti di guerra scuotono il Medio Oriente, e il presidente statunitense Barack Obama appare determinato – salvo ripensamenti all’ultimo momento – a “dare una lezione” al regime di Bashar Assad, reo di aver ucciso mille e quattrocento persone con il gas nervino, il pontefice lascia sullo sfondo la cronaca, pur amara, dei giorni correnti, e rinvia all’evento, lontanissimo ma sempre incombente, di Caino, archetipo di ogni più brutale violenza, e apripista di quella catena interminabile di prepotenti che nei millenni hanno seminato distruzione e morte, ritenendo lecito, in un delirio di onnipotenza, uccidere il proprio fratello.
Parlando di Caino e Abele, papa Francesco ha scelto un orizzonte culturale e simbolico comprensibile non solo ai cristiani, ma a donne e uomini di ogni religione e cultura, perché in qualsiasi parte del mondo quel mito è ben conosciuto. La speranza di papa Bergoglio è che le sue parole – “In ogni violenza e in ogni guerra noi facciamo rinascere Caino. Noi tutti!” – scuotano le coscienze e, anche per l’ampiezza delle risposte in tutto il mondo al suo appello, spingano Obama e i suoi alleati a desistere dal pensare a una punizione armata contro Assad, che pure è un dittatore, ma trovino un modo “incruento” per costringere le parti che in Siria si combattono a imboccare la via del negoziato. Una via certo asperrima, quasi impraticabile; e tuttavia un “senso unico” nel quale ci si deve inoltrare. L’alternativa è l’Apocalisse.
Ma la Chiesa romana – come ogni altra, e come ogni religione – non sarà credibile nei suoi appelli alla pace se, mentre predica agli altri, non si pone essa stessa in stato di conversione, per essere annunciatrice credibile della nonviolenza. E allora, tanto per fare un esempio, prima o poi dovrà essere ridiscussa l’istituzione stessa degli Ordinariati militari (una specie di diocesi per l’assistenza pastorale ai soldati) e la figura dei cappellani militari, che di fatto, in qualche modo, sono inquadrati nell’esercito. I simboli contano, e un sacerdote con le stellette rischia – a prescindere dal suo impegno personale per la cura d’anime dei militari – di trasmettere un messaggio contraddittorio. Di più: se attacco al regime di Damasco ci sarà senza mandato Onu, le gerarchie cattoliche inviteranno i soldati delle rispettive nazioni a fare obiezione di coscienza contro una guerra illegittima?
A livello maxi e mini, dunque, la tragica vicenda siriana è diventato un test che non solo mette a nudo le contraddizioni delle grandi potenze, che per due anni e mezzo, e senza versare lacrime di circostanza, hanno foraggiato l’una o l’altra parte in conflitto; e non solo testimonia l’impotenza dell’Onu; ma, anche, pone a Chiese e religioni interrogativi cruciali: hanno, esse, formato i loro seguaci ad essere “custodi del proprio fratello”? Oppure hanno benedetto i “nostri”?