Partigiani contro le mafie: viva il 25 aprile, viva la Liberazione!

Per la prima volta vengo in nord Italia, convinta che la mafia debba essere conosciuta con il suo volto feroce in tutto il Paese. Sono onorata di essere qui davanti al sacrario dei partigiani, perché anch’io mi sento partigiana e lotto per la liberazione dalla Mafia”.

Comincio così, con queste parole, il mio ricordo odierno sulla Liberazione, sul 25 aprile.

Queste sono le parole che Tina Montinaro, vedova di Antonio, caposcorta del giudice Giovanni Falcone, pronunciò due anni fa a Modena.

Perché anche la lotta alla mafia, alle mafie, è una lotta di resistenza. E’ una lotta immane di resistenza. E bisogna crederci.

Bisogna avere il coraggio di denunciare, di guardare in viso questi “signori”, che signori non sono. Bisogna avere il sangue freddo e non è un peccato se spesso, questo sangue freddo, manchi, se manchi il coraggio. Ma facendosi forza insieme, ci riusciremo.

Bisogna capire che non parlare vuol dire uccidere nuovamente persone che hanno servito lo Stato e sono morte. Per noi.

Come Giovanni Falcone, come Antonio Montinaro, come Francesca Morvillo,  Rocco Dicillo e Vito Schifani. Come Paolo Borsellino, Emanuela Loi, Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina, Agostino Catalano. Come Piersanti Mattarella. Come Pino Puglisi, Don Pino Puglisi. Come Rosario Livatino, come Libero Grassi, come Antonino Scopelliti. Come Pio La Torre. Come Carlo Alberto Dalla Chiesa.

O ancora come i giornalisti Cosimo Cristina, Mauro De Mauro, Peppino Impastato, Mario Francese, Giuseppe Fava, Giancarlo Siani, Mauro Rostagno, Beppe Alfano.

Come un altro giornalista, che cito singolarmente perché mio conterraneo e da sempre faro, Giovanni Spampinato.

Bisogna avere il coraggio di far camminare le loro idee sulle nostre gambe e denunciare. Si, denunciare.

Spezzare questa cortina di omertà, questo muro di gomma. Denunciare vuol dire impedire che quei soggetti si arricchiscano e continuino ad arricchirsi.

Vuol dire spezzare le catene della paura, fare squadra. Non consentire che la nostra terra, sia solo terra di lacrime, lapidi e commemorazioni per poi riprendere la vita normale. Come se nulla fosse accaduto.

Smettere di dire la frase odiosa “se la sono cercata”. Smettere di fingere.

Vuol dire ammettere le mafie: la mafia, la ‘ndrangheta, la camorra.

Vuol dire ammetterne la presenza e non celarle.

Vuol dire iniziare un percorso di denuncia che deve partire, ripartire dal basso.

Vuol dire non fare antimafia solo dietro una tastiera di un pc, dietro facebook o i scial network, per poi finirla lì e magari chiedere la raccomandazione, la cortesia al potente di turno per soprusi. Per abusi.

Vuol dire denunciare il pizzo o l’organizzazione criminale. Vuol dire, perdonate se parto dalla mia Ragusa, denunciare l’arricchimento illecito di chi ruba le case comprandole all’asta.

Anche questa è mafia, la mafia delle aste giudiziarie.

Vuol dire impedire ad una persona come Mario Campailla, detto “u checco” (o saponetta), di continuare a spadroneggiare a Comiso (Ragusa), come rivela la Direzione Nazionale Antimafia nella Relazione annuale del 2014. E questo “signore” è libero. Deve andare in galera, ma la gente deve parlare.

Vuol dire andare e denunciare i soprusi, gli abusi, le storture, il pizzo che sono costretti a pagare.

Vuol dire riferire agli inquirenti informazioni utili per ricostruire l’omicidio del boss della ‘Ndrangheta a Vittoria, Michele Brandimarte. Con chi fosse. Chi c’era con lui, oltre ai fratelli Italiano.

Vuol dire indignarsi quando si è scoperto che figli di mafiosi e ‘ndranghetisti venivano aiutati all’università, prendendosi materie senza neanche sedersi a fare esami, 30 e lode senza aprire bocca. Solo perché, magari, ci si chiama Antonio Pelle e si è il nipote di Giuseppe Pelle (“Gambazza”).

Indignarsi per la spacconeria di chi, come Francesco (Ciccio) Pesce (Testuni) in Calabria, a Rosarno, durante la sua latitanza veniva “cibato” con le donne anche di amici, per dissetare la sua sete di sesso. Una vergogna. E le donne facevano a gara, per essere la “puttana” del boss (perdonate il francesismo).

Vuol dire testimoniare. Vuol dire costituirsi parte civile nei Processi di mafia.

Vuol dire fare i nomi e denunciare la mafia nei mercati più importanti, nell’indotto, nei trasporti (da Vittoria a Fondi).

Vuol dire non accettare rapporti grigi in politica e non votare chi ha fatto (e fa) dei rapporti grigi la sua azione politica. E ce ne sono purtroppo, tanti. Troppi.

Vuol dire non accettare di pagare, di essere strozzati.

Vuol dire andare avanti, a testa alta. Con un solo sogno, una terra libera, libera dalle mafie, dalla corruzione e dagli atteggiamenti mafiosi, sempre più spesso il cancro di questo nostro amato Paese.

Anche noi siamo, dobbiamo essere, partigiani e lottare per la liberazione dalla mafia, dalle mafie!

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