Ci fu un uomo, nato in Sicilia, che osò sfidare il potere di Cosa Nostra. Il suo nome era Pio La Torre. Una figura storica dell’antimafia civile e politica e autore di vere e proprie rivoluzioni legislative. Figlio di contadini poverissimi e analfabeti, ancora bambino si ribellò alla famiglia e lottò per poter andare a scuola. Lo comunicò al padre in una calda giornata d’estate con quattro parole secche e fulminanti: «Voglio andare a scuola». Il padre buttò la zappa a terra e corse gridando verso casa: «Vuole andare a scuola! Non se ne parla. Lui dovrà fare il contadino come me, i suoi nonni e i suoi bisnonni!» Il dado era tratto. Pio aveva scelto. Aveva scelto la cultura come strada per il riscatto sociale. A diciassette anni si iscrisse al pci. Esponente di primo piano del Partito, chiamato nella segreteria nazionale da Enrico Berlinguer nel 1979, nel 1980 presenta un disegno di legge, che ancora oggi porta il suo nome e che introdurrà l’articolo 416 bis del codice penale. È il certificato di nascita della prima vera legislazione contro la mafia: la codifica del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso. È da quel giorno che i magistrati possono istruire i processi di mafia. Senza quell’articolo Falcone e Borsellino non avrebbero potuto imbastire il maxi-processo contro la cupola di cosa nostra. Una svolta che segna un prima e un dopo nella lotta alla mafia e che consente allo Stato di condannare i boss mafiosi solo per il vincolo dell’associazione. Ecco perché La figura di Pio La Torre non rappresenta solo un fatto di cronaca. È qualcosa di più. Travalica la cronaca. Investe la società siciliana, sconvolge il PCI, travolge la politica nazionale ed entra di prepotenza nella Storia del nostro paese. Per prima cosa, Pio La Torre, è un uomo, non solo un personaggio. Non solo una vittima innocente della mafia. E’ un uomo politico che a conoscerlo, a leggerne i discorsi, i saggi, i libri, a vederne le fotografie, da quelle di quando viene arrestato a Bisacquino in provincia di Palermo per l’occupazione delle terre a quelle di quando si trova disteso sul tavolo dell’obitorio, ti interessa, ti coinvolge, ti appassiona tanto da costringerti a chiedere, anche a distanza di 40 anni, cosa c’è dietro la sua morte, e perché mai nessuno questa vita l’abbia voluta raccontare. Sotto il profilo legale il caso di Pio La Torre è risolto. Ci sono gli esecutori materiali, i mandanti, condannati in tutti i gradi di giudizio. Abbiamo i colpevoli, tutto è chiaro, il caso è chiuso. Ma qualcosa non torna. Per capire bene, bisogna conoscere l’uomo La Torre, analizzare e spostare l’obbiettivo sullo scenario e il contesto che lo circonda.
Gli anni ottanta; la crisi della politica con la fine, in Sicilia, del patto di unità autonomista sperimentato da Achille Occhetto nella seconda metà degli anni settanta e in Italia del governo di unità nazionale che si era costituito dopo l¹omicidio di Aldo Moro; un ambiente, quello palermitano, mafioso e potente come sfondo; gli omicidi eccellenti di magistrati, poliziotti, politici e giornalisti; l¹inizio di una delle guerre di mafia più cruente della storia della Repubblica che fa esplodere gli equilibri interni a Cosa Nostra e dove la battaglia per l’egemonia viene vinta da un gruppo, quello dei corleonesi, che ha annientato nel sangue tutti gli avversari.
La costruzione della base missilistica di Comiso che fa capire a Pio La Torre che si tratta di un altro brutto affare che avrebbe spinto la mafia a metterci le mani.
E poi la volontà e l’intenzione, dopo la grande manifestazione di Comiso, di portare a Palermo centomila persone contro la mafia. Ma c’è altro che rende il caso La Torre importante. Ed è la consapevolezza assoluta che senza una battaglia aspra contro la mafia non ci può essere alcuna azione politica. Questa convinzione lo ha accompagnato attraverso le varie fasi della sua vita pubblica e privata. Da quando giovane dirigente della CGIL a Corleone stringe la mano, congratulandosi per le indagini svolte per l’omicidio del sindacalista Placido Rizzotto, al giovane capitano dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa. Era il 1949. Insomma politica, soldi e mafia: ecco la santissima trinità che Pio La Torre cercò di profanare, sapendo parlare con il linguaggio della povera gente. La lotta alla mafia era la sua ossessione, il suo chiodo fisso che nel corso degli anni lo porterà a sviluppare tesi, ma soprattutto a creare strumenti di lotta e di contrasto per i magistrati e le forze dell’ordine come la legge che introduce il reato di associazione mafiosa(416 bis del codice penale) e permette le indagini patrimoniali e la confisca dei beni.
Ecco perché è necessario raccontare la storia di Pio La Torre. Perché lui incarna la politica che attraverso le leggi diviene realmente strumento al servizio del paese e per rendere pudico omaggio, anche se tardivo, al sacrificio di una persona per bene.
E allora proviamo a raccontarla senza tesi precostituite, versioni o pregiudizi politici, ma soltanto mettendo in fila tutto quello che è certo e tutto quello che non lo è. Anche perché certe storie bisogna tenerle bene a mente. Nato a Palermo nel 1927, nella terra dei vespri e degli aranci, a 4 anni, lui figlio di bracciante, s’impone alla famiglia e decide di andare a scuola, a 15 anni entra nel PCI, a vent’anni è già un dirigente prima della Confederterra, poi della Cgil e quindi del Partito comunista. Nel 1950 è arrestato e tenuto in galera (carcere preventivo!) per un anno e mezzo, accusato di avere organizzato l’occupazione con i braccianti e con i contadini senza terra di un feudo nel palermitano. (“uno degli obiettivi che il nemico si prefigge chiudendoci in carcere – scriverà lucidamente dalla cella dell’Ucciardone a Paolo Bufalini – è quello di strapparci alla lotta e isolarci da quel movimento che è la fonte di ogni nostro pensiero e azione”.)
Sarà segretario regionale della Cgil, e nel 1962 verrà eletto segretario regionale del partito. Intanto fa parte del Comitato centrale del Pci già da due anni. E nel 1969 è chiamato a Roma per ricoprire incarichi nazionali: la direzione prima della commissione agraria e poi di quella meridionale. Più tardi entrerà nella segreteria nazionale, direttamente su proposta di Enrico Berlinguer, in considerazione delle sue doti politiche, d’intuito e di organizzazione. Ma c’è un momento-chiave nella vita di Pio La Torre: nell’81, quand’è deputato a Montecitorio già dal ’72, chiede di tornare in Sicilia dove torna ad assumere la responsabilità di segretario regionale del partito.
La Torre è consapevole della gravità della situazione nell’isola. Tre elementi alimentano il suo allarme: la crisi economica, la criminalità mafiosa (è stato lui a stendere la relazione di minoranza del ’76 della commissione parlamentare antimafia), la minaccia, rappresentata per la pace nel Mediterraneo e per la stessa Sicilia, della costruzione della base missilistica di Comiso contro la quale lancia la campagna per raccogliere un milione di firme in calce ad una petizione al governo (un suo intervento a sostegno della campagna, scritto due giorni prima dell’assassinio, apparirà postumo su “Rinascita”).
Il ritorno di Pio La Torre mette in allarme molte centrali: del crimine organizzato, della destabilizzazione politica e della finanza internazionale. E’ in questo quadro che matura la decisione di eliminarlo.
Siamo al 30 aprile 1982. Sono le ore 9 del mattino e l’aria è fresca. Non si avverte ancora il caldo afoso di agosto quando il calore sale dall’asfalto e ristagna fino a farti mancare il respiro. Nell’auto guidata da Rosario Di Salvo, Pio La Torre, da pochi mesi segretario regionale del PCI, sta raggiungendo la sede del partito. Alla macchina si affiancano due moto di grossa cilindrata: uomini anonimi celati dal casco e armati di pistole e mitragliette iniziano a sparare. Rosario Di Salvo ha il tempo di estrarre la pistola e di rispondere al fuoco. Ma è inutile. La Torre morirà sul colpo, Di Salvo qualche minuto dopo. Verranno le indagini, i processi, le commemorazioni. Verrà l’oblio. Come tentativo definitivo di scordare questa strana figura di uomo politico. Capace ad ogni parola di far seguire i fatti. Capace di partire dalle cose per arrivare alle idee. E che forse vale la pena raccontare. Per meglio fissare nella memoria di questo nostro paese quello che la politica potrebbe essere, quello che la politica dovrebbe dare.