Valanga di condanne e oltre 200 anni di carcere complessivi.
Sono queste le richieste del Sostituto Procuratore della Dda di Reggio Calabria, Luca Miceli (Gup Barbara Bennato) per il processo “Puerto Liberado” che vede, come capi della associazione finalizzata al traffico della droga, i fratelli Brandimarte, Giuseppe e Alfonso, già considerati dagli inquirenti – e secondo le dichiarazioni di diversi pentiti – organici alle cosche della ‘Ndrangheta della Piana di Gioia Tauro.
Vediamo le richieste nel dettaglio:
Alfonso Brandimarte 20 anni di reclusione
Giuseppe Brandimarte 20 anni di reclusione
Antonio Campanella 16 anni di reclusione e 30mila euro di multa
Antonio Calabrò 16 anni di reclusione e 30mila euro di multa
Vincenzo Crisafi 16 anni di reclusione e 30mila euro di multa
Vinicio Cambrea 14 anni di reclusione
Vincenzo Caratozzolo 12 anni di reclusione
Antonio Femia 8 anni e 2 mesi di reclusione
Rocco Gagliostro 10 anni di reclusione
Giuseppe Galluccio 10 anni di reclusione
Davide Gentile 12 ani di reclusione
Mario Ietto 14 anni di reclusione e 30 mila euro di multa
Francesco Nirta 6 anni di reclusione e 30 mila euro di multa
Gianpietro Sgambetterra 9 anni di reclusione e 30 mila euro di multa
Francesco Siviglia 12 anni di reclusione
Antonio Giovanni Staiti 10 anni di reclusione
Vincenzo Trimarchi 4 anni di reclusione
Per Giuseppe Condello è stata chiesta l’assoluzione.
L’operazione “Puerto Liberado” era scattata all’alba del 24 luglio del 2014, coordinata dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria – Direzione Distrettuale Antimafia, ed eseguita dal Nucleo di Polizia Tributaria di Reggio Calabria – G.I.C.O. – Sezione G.O.A., in collaborazione con il personale del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Reggio Calabria.
Un’operazione che aveva consentito il sequestro, negli ultimi tre anni, di oltre quattro tonnellate di cocaina purissima, che i “sodali” del gruppo tentavano di far passare dal porto di Gioia Tauro e che avrebbe fruttato, una volta immessa sul mercato, un introito complessivo di circa 800 milioni di euro.
Un vero e proprio sequestro record che dà la dimensione dell’incidenza del gruppo nelle dinamiche criminali che ruotano attorno al porto di Gioia Tauro.
Quella costituita dai tredici fermati era una vera e propria ”squadra”, un gruppo affiatato di soggetti che per via della loro attività professionale all’interno del porto, riusciva ad organizzare i turni e le presenze, per favorire l’arrivo della cocaina da stoccare e farla uscire dal porto eludendo i controlli di sicurezza .A capitanare il gruppo criminale erano i fratelli Brandimarte, Giuseppe e Alfonso, entrambi ex dipendenti di una società di gestione della banchina merci del porto.
Negli anni i due erano riusciti a creare un vero e proprio sistema di import che attraverso messaggi in cifrati con codici alfanumerici, consentiva l’acquisto di ingenti quantitativi di cocaina dai cartelli dei narcos sud americani.
Proprio in seguito ai successivi approfondimenti gli investigatori sono riusciti a ricostruire la pianta organica dell’organizzazione, capeggiata appunto dal maggiore dei fratelli Brandimarte, Giuseppe, che proprio in virtù dell’esperienza maturata in banchina, poteva contare sull’assoluta ed incondizionata collaborazione di diversi dipendenti infedeli della Società di transhipment.
Al suo fianco nella gestione delle attività vi era il fratello, Alfonso Brandimarte, che dopo l’arresto del capo, per i fatti inerenti la faida Brandimarte-Priolo (in appello, faida che per i pentiti sarebbe partita dall’abbandono del tetto coniugale di Damiana Brandimarte già moglie di Vincenzo Priolo – LEGGI ARTICOLO – e figlia di Michele Brandimarte, ucciso a Vittoria il 14 dicembre del 2014) aveva subito preso le redini del gruppo criminale.
La gestione era talmente oculata che i capi del clan avevano studiato con una cura maniacale una serie di strategie per sfuggire ai controlli delle forze dell’ordine.
Brandimarte girava addirittura su un’auto blindata. Le comunicazioni tra i membri del gruppo venivano effettuate sempre da sim e telefoni cellulari registrati con nomi falsi. Uno di questo, secondo gli accertamenti affettati in seguito, è risultato addirittura intestato al personaggio dei cartoni animati ”Puffetta”.
Inoltre i sodali più influenti erano arrivati a far installare all’esterno delle proprie abitazioni dei sistemi di video sorveglianza, in un caso occultati addirittura con una statua raffigurante la Madonna, che consentivano di controllare eventuali appostamenti o blitz delle forze dell’ordine.
La loro era una vera e propria società di servizi logistici, specializzata nella gestione e nella fuoriuscita dallo scalo portuale delle partite di cocaina in arrivo dai porti di diversi Paesi del Sud America.