Quelle “scarpette nuove” nella tragedia di Lampedusa

“Un paio di scarpette nuove”. È questo il dettaglio che i soccorritori hanno raccontato, in una delle tante interviste rilasciate a colleghi, su quel disperato moletto di Lampedusa. Non parlerò dell’immane tragedia che Lampedusa ha e sta vivendo, non delle centinaia di morti che potrebbero essere 100, 200, 300 oppure 350. Non mi importa il numero, perché tutte le persone che hanno cercato di “vivere” una nuova vita e che, invece, quella speranza di vita si è trasformata in tragica morte. Non voglio neanche soffermarmi su ciò che un giovane migrante, qualche giorno fa, mi ha detto. Alla mia domanda, “perché rischiate la vita, pagando così tanto?”. Lui mi ha risposto: “Perché meglio rischiare di morire, cercando di vivere diversamente, che morire certamente con la guerra”. Non vi parlerò neanche delle migliaia di morti che in questi anni, hanno trasformato le acque del Mar Mediterraneo, in sangue. Sarebbe troppo scontato e, soprattutto, sarebbe troppo riduttivo. Chi ha il coraggio di dar numeri, parla di 6200 morti in dieci anni. Ma vi siete mai domandati quanti “barconi” non siano mai arrivati sulle nostre coste? Nelle nostre acque? No, non sarei in grado di parlarvi di questo. Vi parlerò di un termine, del quale molti di noi – probabilmente -, non conosciamo appieno il significato, ma che ci dovrebbe provocare vergogna. RESPINGIMENTO. Il respingimento, un termine banale (pensate quante volte, da ragazzi, lo abbiamo pronunciato parlando del nostro Lui o della nostra Lei, “mi ha respinto”), che cela un concetto vergognoso. Ecco, noi queste anime in pena, le “respingiamo”. Adottiamo il “respingimento”. Di questo dovremmo vergognarci, profondamente. Ed ecco che penso alle parole di Papa Francesco “Vergogna”. Pensiamo di essere un Paese democratico ed evoluto, invece siamo un Paese che respinge. A volte più che respingere, chiudiamo gli occhi, come i tre pescherecci che ieri mattina nel mare di Lampedusa, hanno fatto finta di non vedere quelle persone disperate che cercavano soltanto di “non essere respinte”. Altre volte, appunto, attuiamo il Respingimento, cioè – letteralmente –“ricacciamo indietro, spingiamo lontano da noi oppure, ancor peggio, rifiutiamo di accogliere”. Ecco, noi con la tanto discussa legge “Bossi-Fini”, abbiamo introdotto i respingimenti. Noi respingiamo questi poveri disgraziati che cercano soltanto una nova vita, li regaliamo nuovamente alla guerra, alla sofferenza, alla disperazione, alla morte certa, “piuttosto che possibile”. E dopo oggi, cosa succede? Quali sono i primi commenti? “Vengono perché c’è chi gli da speranza, hanno subito commentato i leghisti”. No, vengono da noi perché vorrebbero una nuova vita e non vogliono neanche rimanere da noi, ma andare oltre, Germania, Francia, Paesi del Nord, queste sono le loro mete finali. E pensare che siamo stati anche condannati con una sentenza della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, per questi respingimenti. Vengono da noi per sperare, cercare di sognare, chissà cosa pensano quando partono, chissà quale sogni, quale prospettive. Invece noi li “respingiamo”, invece di far la “voce grossa” con l’Europa per chiedere aiuto e garantire a queste persone una nuova vita – magari tramite corridoi umanitari -, facciamo la “voce grossa” con loro. Loro che sono solo deboli, loro che – e torniamo all’inizio dell’articolo -, arrivano con scarpe nuove, con un abito da festa, perché sperano che arrivando, possano celebrare una nuova “festa”, una nuova vita. E quel bambino, più o meno di quattro anni, indossava le “scarpette nuove”. Quelle scarpette che i soccorritori hanno visto, quelle piccole scarpette – grandi (o piccole) come un pugno della mano -, che erano bianche, come il candore e la ingenuità di quel bambino, ma grandi come i sogni che incarnava. Ma lui non c’è più, ci sono soltanto le sue scarpette. Quelle scarpette dovremmo indossarle tutti e, soltanto dopo averle indossate, avere il coraggio di continuare ad attuare i respingimenti. E se avremo questo coraggio, se chi ci governa continuerà ad averlo questo coraggio, almeno ci eviti la scena del pianto, di lacrime da coccodrillo. Perché il sangue di queste persone, di occhi spalancati alla speranza, di mani che cercano lavoro altrove, di piedi e gambe che vorrebbero soltanto camminare su nuove terre, meritano di essere trattati come uomini. Se li respingeremo, se continuiamo a rifiutarli, allora no, non piangiamo più. Evitiamogli questa presa per il culo. Evitiamo a noi stessi questa voglia di lavarci la coscienza. La coscienza non si lava versando un paio di lacrime, ma facendo gli uomini e pensando, magari, che un domani possano essere i nostri figli a scappare dal nostro Paese e che, quindi, potremmo essere noi i genitori di quei ragazzi. Quindi, prima di piangere, vergogniamoci. Soltanto dopo, quando saremo coscienti di ciò che abbiamo fatto e che facciamo, potremo piangere e soffrire per loro. Togliendo questo termine, il “respingimento”, non soltanto dalle leggi che trattano di immigrazione, ma completamente dal nostro vocabolario. Magari, proprio, modificandolo in abbraccio. Abbracciamoli, apriamo il nostro cuore a Cristo ed ai suoi figli, i nostri fratelli. Ora piangiamoli, passiamo nel ricordo dai veli svolazzanti che li copriva a Sampieri, ai sacchi di plastica di Lampedusa, ma non aspettiamo la prossima tragedia. Perché il prossimo barcone è già partito e sta per arrivare…

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Nato a Ragusa il Primo febbraio del 1983 ma orgogliosamente Modicano! Studia al Liceo Classico "Tommaso Campailla" di Modica prima, per poi laurearsi in Giurisprudenza. Tre grandi passioni: Affetti, Scrittura e Giornalismo. "Il 29 marzo del 2009, con una emozione che mai dimenticherò, pubblico il mio primo romanzo: “Ti amo 1 in più dell’infinito…”. A fine 2012, il 22 dicembre, ho pubblicato il mio secondo libro: "Passaggio a Sud Est". Mentre il 27 gennaio ho l’immenso piacere di presentare all’Auditorium “Pietro Floridia” di Modica, il mio terzo lavoro: “Blu Maya”. Oggi collaboro con: l'Agenzia Giornalistica "AGI" ed altre testate giornalistiche".

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