“I contributi dichiarativi forniti dai collaboratori di giustizia convergono, tutti, nell’attestare come Jerry Ventura ed Angelo Ventura facessero parte del clan fondato e diretto dal padre Filippo e ne costituissero un imprescindibile snodo, perché, potendo andare a colloquio con il padre detenuto, ne trasmettevano poi gli ordini agli altri sodali. L’attendibilità dei dichiaranti era già stata positivamente vagliata in altri processi e chi si era aggiunto, l’Avila, aveva mostrato nei fatti la sua credibilità consentendo il ritrovamento delle armi di cui il gruppo era munito”.
E’ la decisione della Corte di Cassazione con cui, respingendo il ricorso dei tre, si conferma nella sostanza l’impianto accusatorio della Direzione Distrettuale Antimafia di Catania che, per il tramite delle indagini della Polizia di Stato di Ragusa, aveva portato in galera Jerry Ventura, Angelo Elvis Ventura e Marco Di Martino.
Secondo la Cassazione “si deve annotare come i tre collaboratori di giustizia Avila, Femía e Pavone, abbiamo adeguatamente integrato il quadro probatorio confortando così l’ipotesi accusatoria della mafiosità del gruppo del Ventura, per il periodo di tempo successivo al precedente giudicato, attestandone la presa sui tessuto imprenditoriale, attraverso la continua pressione estorsiva, accompagnata e supportata dalla disponibilità delle armi (anche di rilevante potenzialità offensiva) rinvenute su indicazione del medesimo Avila”.
La Corte di Cassazione ha, nei fatti, anche confermato l’attendibilità di Rosario Avila.
Rosario Avila, inserito in Cosa Nostra, aveva dato una descrizione del gruppo dei Ventura, essendo il compagno di Maria Concetta, figlia del reggente, Gionbattista Ventura. La stessa Maria Concetta che, prima aveva seguito Avila nel programma di protezione poi, a causa del suo comportamento, è stata buttata fuori.
Avila confermava che “i contatti con il detenuto reggente Filippo erano tenuti attraverso i suoi figli”. E “riferiva anche della partecipazione di Jerry ad una rapina consumata con le armi detenute dal gruppo. E del fatto che gli era stata consegnata un’arma ed il giubbetto, poi anch’esso rinvenuto nel deposito delle armi del gruppo, per minacciare un giovane con cui aveva avuto una discussione”.
La Cassazione ha rimandato al Tribunale di Catania la valutazione relativa alle armi ed alla ricettazione delle stesse.